Due sedie e due spartiti sul pavimento. Nient’altro. Entrano Jonathan Burrows e Matteo Fargion. Si siedono. Camicia, jeans e stivali. Non abbiamo neanche il tempo di realizzare che già un groviglio di mani fende l’aria. Si tratta di un vero e proprio concerto, sì, ma per mani e braccia. Il compositore e il coreografo duettano in silenzio, seduti l’uno accanto all’altro suonando lo stesso brano di Morton Feldaman, For John Cage, ma lo fanno seguendo due partiture diverse: note per il compositore e numeri per il coreografo. Il pubblico si diverte da subito. Le risate sono schiette, fanciullesche. Gli unici suoni che udiamo sono i fischi dell’aria tagliata dai movimenti della braccia, i cigolii delle sedie, i respiri affannati, lo strusciare delle dita, i leggeri tocchi di mani e piedi sul corpo e sul pavimento, ma unica vera musica di tutto lo spettacolo è rappresentata dal rumoreggiare della platea, divertita e timida. Le risate si fanno ancor più intense con le simpatiche interiezioni (Ah…Ah…Eh…Eh…) dei due performers che intonano semplicissime melodie, trascinando il pubblico in questo giochetto. Ciò che vediamo però è ancor più enigmatico di ciò che udiamo: oggetti invisibili vengono continuamente spostati, sollevati, trascinati, indicati e misteriosi dialoghi attraversano l’aria. Non vi sono gesti connotati da significati precisi, non si tratta di un linguaggio corporeo portatore di codici riconoscibili, è più un codice infantile, semplicemente un linguaggio per bambini capace di catturare anche gli adulti, probabilmente si tratta di un alfabeto primordiale che ognuno di noi nasconde nel proprio dna.
Concentrati e allo stesso tempo teneri, Burrows e Fargion si scambiano sguardi complici: entriamo a far parte di questo gioco quasi senza accorgercene, ci lasciamo guidare dai movimenti e dagli occhi privi di alcun filtro razionale. Ci osservano, sono attenti alla platea, il contatto col pubblico è continuo e non è assolutamente forzato, l’artificio è bandito, i loro sguardi penetrano nei rumori casuali della platea, sembra che li catturino per integrarli istantaneamente alle loro ragnatele invisibili. Lanciano occhiate agli spartiti e alle mani dell’altro, si guardano stupiti e a volte appaiono in attesa che l’altro finisca, si imitano, si ripetono, si rispondono e si contraddicono, il tutto con efficace semplicità e naturalezza. Il pubblico è catturato dalla semplicità delle loro espressioni, ma soprattutto dai movimenti continui e velocissimi delle braccia che sembravano disegnare nell’aria trame invisibili in un crescendo di tensioni sonore e motorie, mentre l’innegabile grazia di Burrows condisce il tutto con un vero e proprio tocco di classe. Resta tuttavia da considerare se questo tipo di performance esclusivamente seduta possa chiamarsi coreografia o se necessiti di una diversa definizione capace di cogliere a pieno il senso originale dell’operazione Burrows-Fargion, ma questo è compito da studiosi, il pubblico sa solo di aver lasciato la sala canticchiando e contorcendosi in buffe acrobazie, e una volta svuotata la platea qualcuno era ancora dentro a spiare quali segreti nascondessero gli spartiti rimasti sul pavimento.