Come nasce il gruppo Le Supplici e su cosa si focalizza il vostro lavoro?
Io, Mauro Santoriello (ex Accademia degli Artefatti) e Massimiliano Palmese (scrittore), abbiamo avviato il progetto Le Supplici nel 1998, dopo che avevo lasciato la compagnia di Virgilio Sieni per seguire un mio percorso di ricerca personale. Nel gruppo curo le coreografie e l'adattamento della scena e del suono con l'assistenza di Martina Danieli, storica danzatrice della formazione. Il nostro lavoro è teso alla ricerca, all'indagine, e infine alla scelta di qualità dinamiche sempre nuove, fra le pressoché infinite che il corpo del danzatore riesce a generare. Allo stesso tempo pensiamo al lavoro di ricerca sulla danza non come un ambito chiuso ma bensì permeabile da altri tipi d'espressione e manifestazione, inclusa la letteratura e il linguaggio mitico. Per quest'ultimo abbiamo sempre avuto una speciale predilezione. Ci siamo attualmente soffermati sul mito indiano perché abbiamo improvvisamente riscontrato una singolare e inaspettata corrispondenza fra ciò che noi stavamo indagando nel corpo e ciò a cui accennano alcuni testi e alcune antichissime rappresentazioni artistiche indiane. Un esempio? La dissoluzione di tutte le forme, simultanea alla manifestazione di tutte le forme, è qualcosa a cui in India avevano già pensato in età vertiginosamente lontane. Nella danza ci attrae la ‘purezza’, che rimane inattaccabile dalle declinazioni del senso unilaterale, perché è pura manifestazione con la sua grossa portata d'ambivalenza. A parer mio quando la danza si lascia declinare da “un senso” non è più danza, ma qualcosa di più vicino alla recitazione e alla rappresentazione.
Che tipo di lavoro fate sul testo?
Nel caso specifico del Mahabharata, vista la sua estensione, abbiamo lavorato su episodi scelti, ciascuno con caratteristiche spazio/temporali sue proprie. Il lavoro parte dal testo, ma i risultati ottenuti a partire da esso trovano un riscontro solo ed esclusivamente nel corpo del danzatore. Con la collaborazione di altri gruppi (MK di Roma e alcuni danzatori della compagnia di Willliam Forsythe di Francoforte) si è lavorato su più capitoli separatamente perché ci attrae l’idea che non sia un singolo occhio c.reativo a operare, ma più sguardi per arrivare a un risultato composito.
Perché avete deciso di avvicinarvi al Mahabharata?
Nonostante la distanza tra il nostro modo di pensare e quello induista, ho trovato che il testo contenesse quegli spunti di cui avevamo bisogno per proseguire la ricerca sulla danza e la presenza del danzatore. Le apparenti contraddizioni e gli ossimori contenuti in quel pensiero mitico ci hanno ispirato in una serie di possibilità d'azione pregne di suggestione, mantenendo al contempo quell'apertura ambivalente che il danzatore produce naturalmente in dinamica. Questo ci ha portato alla costruzione dello spettacolo.
Quale è il tipo di lavoro fatto sull’episodio scelto? Cosa rimane del testo, lo leggete semplicemente, lo riscrivete o cos’altro?
L’approccio non è il medesimo per ogni episodio. Nei primi tre si affronta la parte del “Libro degli Inizi” dove si parla della creazione del cosmo. La genesi dell’universo in India è intesa come emanazione della mente. Per la loro cultura il cosmo prima di essere fisico è solo Mente, è pura coscienza dove tutte le forme emergono e si riassorbono, fluttuano e si corrispondono come le creste delle onde in un oceano. E proprio da questo senso della fluttuazione, dell'emergere e del riassorbirsi di tutte le forme, che ci siamo lasciati guidare concretamente nel modificare la nostra danza.
Quindi non create una vostra drammaturgia che parte dal testo, non fate un testo nuovo…
No, assolutamente. Non siamo interessati a ricreare un nuovo testo, il nostro lavoro si incentra sul corpo e quindi sulla danza pura. Semplicemente scegliamo degli spunti, come motori per l’azione e successivamente vediamo cosa accade nel corpo rispetto a questi.
Quindi il vero protagonista dell’episodio è il corpo, è lui che viene indagato nell’episodio?
Più che “sul” corpo, si tratta di un'indagine rivolta alle dinamiche che il corpo crea e che proietta di volta in volta sulla scena e verso lo spettatore, la cui visione d’insieme è fondamentale. Osservazione non passiva, ma fruizione di immagini ed emozioni che attraverso il corpo del danzatore si concretizzano in scena e che infine il pubblico assorbe e restituisce.
Che tipo di rapporto avete con lo spazio e la musica?
Lo spazio nel nostro lavoro è molto importante, in quanto è il supporto e il “panorama” dal quale il danzatore emerge. La scelta del luogo dipende di volta in volta dal lavoro, ma in generale la nostra predilezione ricade su spazi neutri, su luoghi poco connotati che costruiscono degli orizzonti in cui il corpo riesce a muoversi senza troppi vincoli visivi. Ambienti dove è possibile trovare una propria libertà espressiva. Per quel che concerne la musica, invece, sono attratto da quei brani che attraversano differenti qualità spesso in contrapposizione l’una con l’altra: l’unione di leggerezza e durezza, tonalità infernali e eteree.
Un altro aspetto che emerge dai tuoi spettacoli è l’utilizzo deglioggetti, come si esplica nel concreto della danza questo tratto?
Nel lavoro di Modena utilizziamo un numero minimo di oggetti di scena: ci sono un piccolo tavolo, un catino da sauna e poco altro. Quello che caratterizza questo spettacolo sono invece materiali adatti alla copertura: bandiere grandi e piccole, uno stendardo e vari tipi di schermature a più dimensioni. Queste vengono utilizzate per coprire parte delle azioni, o intere scene cardine all’interno dello sviluppo del lavoro.
Questa scelta come viene messa in atto nello spettacolo?
Il libro sesto del Mahabharata, la Bhagavadgita (Canto del Beato) ha come nodo centrale la trasmissione di un segreto che avviene tra i due protagonisti, da sempre intimi compagni. Questa trasmissione segreta, questo travaso intimo di conoscenza non è pubblico ma privato, viene infatti sussurrato dalla bocca di Krishna all'orecchio di Arjuna. E' in generale la volontà di protezione di un'intimità così potente e fragile allo stesso tempo che ha fondato il nostro lavoro Modenese. E nei momenti essenziali che compongono il nostro lavoro abbiamo optato per la copertura anziché per l'esposizione. In alcune rappresentazioni teatrali indiane troviamo una simile modalità dove, ad esempio, le apparizioni divine vengono normalmente celate perché considerate irrappresentabili.
L’azione di coprire è un gesto che fate concretamente in scena?
Si, noi copriamo fisicamente le parti “centrali” delle scene che avvengono. Alla fine ciò che mostriamo è la periferia degli accadimenti. Il centro di ogni azione in realtà rimane oscuro, ciò che abbiamo ritenuto più importante mostrare è il contorno, è il periferico.
Quale è il vostro rapporto con il pubblico?
Quando presentiamo dei lavori nuovi quello che ci interessa di più è creare una distanza. La messinscena è qualcosa che va guardata da lontano per lasciare ampio spazio all’immaginazione. Non c’è quindi un contatto diretto con le persone presenti, ma direi piuttosto una relazione fra l'immaginazione dello spettatore e la sostanza visiva che il danzatore, attraverso il movimento della sua danza, restituisce continuamente trasformata.