Federico León ci lascia perduti in un ingorgo direzionato di coloratissime immagini, gioca a nascondino con i significati e una volta conquistati i mezzi della finzione li trasforma in macchine della verità. Estrellas è un ‘falso di genere’, un cinema che non è solo cinema, una realtà metateatrale che non riporta al teatro.
Julio Arrieta, manager cinematografico nelle baraccopoli di Buenos Aires, al comando di un esercito di attori non professionisti, si appresta a una rivoluzione sociale contro i pochi consolidati poteri del mondo dello spettacolo locale e non solo. Nel cinema o nel teatro, dentro una megalopoli o al limite di una periferia non importa: il gesto artistico deve avere la possibilità di essere colto, ma soprattutto deve essere il più possibile ad altezza d’uomo.
“Siamo portatori di facce.” Abbiamo facce ereditate dai nostri genitori e dai nostri nonni, gesti nati da consuetudini familiari, parole, espressioni verbali ed attitudini del pensiero che non sono nate per caso e che sono portatrici di bellezza. Noi ‘portatori di facce’ siamo gli avversari dei fondotinta e della chirurgia estetica, avversari dell’immedesimazione e dello psicologismo attoriale. Siamo quello che siamo: gente esperta nell’arrangiarsi e che non rinuncia all’autoironia: “vogliamo essere attori, ma vogliamo interpretare noi stessi.”. E gli attori di Arrieta, che in Estrellas diventano attori di León e Martínez, rinunciano alla celebrità e alla professione, decidono di rimanere nel loro spazio vitale e creativo pur di non cedere ai compromessi del sistema dell’impresa teatrale.
La macchina da presa si muove curiosa tra la gente, persone dai volti che parlano come i quadri dei grandi ritrattisti del seicento: nasi, occhi, sorrisi e smorfie raccolti come in un album, uno accanto all’altro in una fila di fermi immagine toccanti, seducenti o semplicemente comici.
La semplicità ci conquista: storie già sentite, pensieri normali, desideri comuni e una socialità tanto naturale da sembrare scontata. Il luogo comune della baraccopoli, organizzata come una vera e propria comunità indipendente, volutamente lasciata lontana dalla città e dai suoi punti di arrivo, viene stravolto da elementi apparentemente accessibili ma non del tutto chiari: un sito internet intitolato “I don’t want to be a celebrity” che ancora ci chiediamo se esista realmente, l’effetto speciale di una nave spaziale di cartone e fumogeni rosa; oppure viene stravolto da quegli elementi interni sottili e ricercati degni di un buon drammaturgo, come la scena in cui Arrieta, di notte, imbacuccato in un cappotto di piumino lungo fino alle caviglie, ragiona su come si potrebbe girare la scena dell’arrivo degli alieni insieme a un suo assistente, pacificamente vestito di una maglietta verde a mezze maniche.
È un film dove domina il realismo, quel linguaggio che León e Martínez conoscono bene e con il quale giocano fino alla sequenza finale, portandolo a un livello estremo di antifrasi: la pellicola si opacizza all’improvviso, lo stereotipo della confusa baraccopoli viene soppiantato da quello degli sterminati deserti d’erba argentini attraverso i quali passa una sola strada a una sola corsia. In quella strada, al tramonto, Arrieta e la sua donna si trasformano in due paradossali coniugi all’inizio di un’avventura americana. Non è un pet a passare di mano da passeggero a conducente, bensì un mate, mentre l’occhio del regista si allontana verso l’alto lasciando spazio ai titoli di coda.