PERCORSI > Linee multiple per una guerra asettica
«Signori la “G” in cui siamo immersi è una “G” commuovente una “G” santa».
Cosa può fare una parola? Perché non pronunciarla? La guerra: il motore, l’azione, il nodo e la fine di questo spettacolo non viene citata, non è pronunciata, è lei che tutto crea e tutto distrugge, ma senza essere mai nominata come se si trattasse di una divinità. Traspare da questo inizio il lavoro finissimo di drammaturgia svolto da Michela Lucenti. Un testo creato partendo non dalla tragedia i Sette contro Tebe ma dalla guerra che questo testo di Eschilo ci racconta. Tutto lo spettacolo è formato da queste parole non dette, smozzicate, rotte, incomprensibili quasi che l’ovvio non sia pronunciabile, quasi che spetti a noi inserire la parola o definire un’azione. Un testo che in alcuni casi rincorre, travolge, sottolinea o ripete ciò che accade in maniera già abbastanza chiara davanti ai nostri occhi. Le azioni forti, sincretiche, mimiche, accattivanti sfuggono in alcuni momenti al testo, come se la parola fosse pronunciata dal personaggio ma il movimento non gli appartenesse. Sembrano frutto di due drammaturgie diverse. Forse è voluto? I sette sacerdoti-guerrieri contengono in sé due identità, servono Eteocle e Polinice, servono bene e male, servono Arafat e Sharon, doppi nei linguaggi, nelle vite, nei corpi e nei movimenti, talmente doppi da non essere distinguibili.
Non esistono i re della guerra, e quelli che si vedono sono burattini in mano a chi della guerra ne fa una fonte di guadagno; il coro nell’ammiccante Michela Lucenti-Marlene crea le regole del conflitto, lo racconta, lo vive e utilizza ma successivamente lo rifiuta e perdiamo le coordinate, sembra non essere più la diva-regina-Marlene ma una donna sola che cerca un figlio nella guerra.
Tebe del conflitto è in ogni parte e in ogni tempo; siamo noi, le nostre case e le nostre famiglie, i nostri vizi e le nostre paure. Eppure questo campo di guerra che ci sta attorno e dentro non ci avvolge completamente e resta lì incollato a quello spazio bianco e rarefatto, incastrato nella gabbia dietro la scena che rinchiude il figliol prodigo su tacchi vertiginosi.
Tre drammaturgie provano a scambiarsi opinioni, riuscendoci in alcuni momenti ma coesistendo in un equilibrio precoce e precario, dove il canto porta via molto spazio al silenzio, dove la danza ripete una nenia lenta e rumorosa e dove la parola sottolinea o rinnega l’evidenza.
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