I componenti del nostro gruppo non sono mai ballerini, ma sono o attori, o persone particolari che riescono a trovare, attraverso il teatro, il modo di indirizzare la loro forza. Si tratta di un balletto sui generis che guarda il mondo, ne parla, ha alla base una forte disciplina e, allo stesso tempo, è sveglio e pronto come una vera compagnia teatrale. Dalla mia esperienza come danzatrice prima e attrice poi, posso dire che il teatro riesce ad avere maggior padronanza del contemporaneo. Lavoriamo perseguendo un obiettivo quasi pionieristico, perché siamo una compagnia molto grande formata da dodici elementi e cerchiamo di provare tutti i giorni, fatto che in Italia è una pura utopia.
Qual è il vostro rapporto con il pubblico?
Diciamo che il nostro è un lavoro piuttosto popolare, non perché i nostri spettacoli siano facili, ma perché la nostra danza è un succedersi di azioni, quindi la gente non la percepisce come concettuale, lontana e virtuosistica; è anzi molto grezza, fatta di relazioni e corpi in contatto. Veniamo dal debutto a Siracusa dove c’è una tradizione radicata sulla tragedia e il pubblico conosce perfettamente il testo di Eschilo. Ma i Sette a Tebe che abbiamo proposto, partono da Eschilo ma vanno ovunque e, nonostante tutto, abbiamo conquistato gli spettatori. Questo perché il pubblico siracusano ha visto qualcosa che non si aspettava e noi gli abbiamo dato dei link per entrare.
I tuoi spettacoli vengono spesso definiti “bauschiani”. Credi che questo dipenda dal fatto che sei stata sua allieva o i vostri lavori hanno realmente qualcosa di simile?
Pina Bausch per me è stata una figura importante che mi ha aperto la via del teatro. Lei è stata la prima a dirmi che dovevo dedicarmi alla coreografia. Credo che venga spesso citata parlando dei miei lavori, perché anche lei lavora molto sulla relazione. Ma le persone che lavorano con lei devono avere una formazione totale invece io faccio danzare dei corpi. C’è però qualcosa nelle relazioni tra corpi che probabilmente creiamo in maniera simile. In Italia si tende molto a seguire un modello: io sto cercando di non imitare nessuno e sto cercando un luogo dove poter lavorare a lungo, con attori stipendiati e orari fissi.
Teatro e danza sono due realtà distinte, almeno in Italia. Ttu dove ti collochi? Pensi di dover fare una scelta?
Penso che si tratti di un problema solo del teatro italiano. Anche qui dovrebbe essere possibile poter utilizzare diversi linguaggi simultaneamente. Nel momento in cui un artista decide di voler parlare su più fronti deve essere in grado di farlo, deve essere preparato e deve avere il tempo di indagare sui linguaggi che vuole usare. Il fenomeno del teatro-danza in Italia rischia di essere poco esauriente perché, mescolando le due discipline, tende a non averne chiara nessuna, facendole apparire troppo concettuali e poco fruibili. Ma se dovessi definire i miei lavori con una parola direi che essi pertengono al teatro.
Come sono i rapporti con il CSS di Udine?
Il teatro d’innovazione di Udine sta lavorando coraggiosamente e per noi è stato fondamentale trovare il suo appoggio. Ci stanno aiutando molto e ci sostengono, anche se abbiamo bisogno di nuove collaborazioni. Sono stati il nostro tramite per farci conoscere e per entrare nel tessuto della città e, grazie a loro, ci siamo “infilati” nell’Ospedale Psichiatrico e abbiamo fatto partire la Scuola Popolare.
Il percorso nella tragedia come nasce?
Due sono gli elementi che hanno dato il via alla ricerca sulla tragedia. Le tragedie contengono azione: all’interno delle loro parole ci sono degli atti che sono molto musicali. Quindi l’azione ci aiuta per creare coreografie e la musicalità per creare i canti. Nei Sette a Tebe abbiamo riscritto il testo facendo parlare quelli che normalmente non parlano. Ma l’elemento che più mi ha attirato è la grande capacità che ha la tragedia di partire da un universale che può essere usato per raccontarsi.
Come lavorate sul testo?
Io mi occupo di scrivere un testo che prende spunti dall’originale, poi tutta la compagnia interviene dando il proprio apporto. Sono convinta che il testo non sia una perla intoccabile: a me interessa molto di più lo stato fisico, la postura che usa il corpo per dire le cose.
In realtà i nostri spettacoli nascono, prima di tutto, come suono. I canti li creo da sola, ma per questo spettacolo ci siamo avvalsi della collaborazione del gruppo pugliese Terrorismo.
Tebe in questo spettacolo è un non luogo?
Tebe è una specie di luogo della coscienza più che dell’anima. Per noi è Gerusalemme non vista solo dal punto di vista politico, non è solo Gerusalemme, zona calda del conflitto, ma anche zona calda interiore dove gli uomini si spiegano, si interrogano e cercano di capirsi. C’è un’altra cosa che mi piacerebbe uscisse nella scelta dei miei luoghi: io creo spazi dove il corpo, mentre si esprime, vive ciò che gli sta intorno creando una sorta di ‘raffazzonamento disciplinato’.