Vsprs è l’ultimo spettacolo di Alain Platel , applaudito nei festival e nei teatri, da Avignone a Berlino, e approdato finalmente in Italia (dopo Torino e Modena sarà a Ferrara).
Vsprs suona maldestramente familiare, come uno di quei neologismi impronunciabili cui la comunicazione cellulare scritta tende sempre più ad abituarci. Ma qui l’economia di vocali cela un titolo dal sapore sacro: “Il Vespro della Beata Vergine” di Claudio Monteverdi. Ascoltato per la prima volta da un Platel adolescente in una chiesa della natia Ghent, il brano esercita tutt’oggi sul regista il fascino di un capolavoro spirituale fortemente innovativo. E se già nei lavori passati l’ispirazione musicale giungeva da Bach o Mozart, le pagine polifoniche di Monteverdi suggeriscono ora al coreografo fiammingo la forza rivoluzionaria di una devozione collettiva che sa declinarsi nell’espressione individuale. Ritmi e contrappunti audaci del compositore seicentesco diventano stimolanti punti d’avvio per una riflessione attenta sulla possibile contemporaneità della musica barocca e aprono la strada a contaminazioni musicali inaspettate: sotto la guida del compositore e musicista Fabrizio Cassol la sfida alla divina purezza dei Vespri arricchisce la polifonia monteverdiana con l’improvvisazione jazz e tzigana, violini zingari e tre diverse voci soliste, in una sapiente collaborazione tra l’Ensemble Oltremontano, il gruppo Aka Moon, il violinista Tcha Limberger e il contrabbassista Vilmos Csikos.
Se la partitura musicale risulta dunque collettiva ma mai omogeneizzante, a favore piuttosto dell’espressione continua di molteplici qualità individuali, in modo analogo si può tentare di descrivere la composizione coreografica. Platel, artista poliedrico e instancabile sperimentatore da oltre ventanni, è innanzitutto un attento osservatore dell’umano; formatosi come pedagogo, con una grande sensibilità per problematiche prima infantili poi adolescenziali infine, più ampiamente, legate a diversi disagi sociali, diventa regista quasi per gioco, dando vita a un personalissimo “teatro d’appartamento”, in cui lo spazio claustrofobico si riempie di vissuti intimi, difficili, di attori che non recitano. La danza, mai consapevolmente cercata ma approdo quasi obbligato di un lavoro estremamente fisico e incalzante nei ritmi e nelle azioni - caro al teatro belga contemporaneo -, nasce sempre dalla verità esistenziale degli interpreti. Anche in Vsprs sulla scena prende forma una collettività multietnica, undici danzatori profondamente diversi la cui forte individualità si dipana nelle pieghe di una cinetica corporea inebriante, suggestionata dalle immagini che lo stesso regista ha proposto quale fonte d’ispirazione documentaria: tratte da un archivio psichiatrico primonovecentesco, fotografie in cui si rincorrono corpi contorti e allucinati, spesso in stato di ipnosi, crisi isterica, possessione o trance. La ricchezza della scena scaturisce così da improvvisazioni concertate, spinte ai confini dell’umano controllo sul corpo, dove ogni movimento acquista un potere autonomo, quasi sempre spaventoso.
Platel tenta dunque di sviluppare un proprio percorso, inverso rispetto alla polifonia monteverdiana, che dall’io sappia condurre al noi interrogando le possibilità del singolo di sentirsi parte di una comunità, come dice la drammaturga Hildegard De Vuyst.
Il Vespro si deforma contraendosi per dar voce e corpo alle sofferenze individuali di una società fintamente sana, la cui malattia si fa a tratti insopportabile e odiosa alla vista, a tratti invece tremendamente umana e inequivocabilmente reale.