Venerdì maggio 2013, all'interno di Vie Festival, ha debuttato a Rubiera Himmelweg - La via del cielo, testo del drammaturgo Juan Mayorga trasposto in scena da Marco Plini. Lo spettacolo, che al suo interno raccoglieva fra l'altro i frutti di un laboratorio intrapreso con ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori, è una riflessione sul tema dell'Olocausto, che viene affrontato da una prospettiva originale e spiazzante. Alcuni prigionieri del campo di internamento Theresienstadt, per eludere il controllo di una delegazione della Croce Rossa, vengono costretti a simulare un villaggio modello, in cui la loro vita scorra nella più totale serenità e sicurezza. Con un allestimento lineare e fedele, Plini conduce lo spettatore a interrogarsi sul potere mistificatorio della parola, sull'uso dell'arte al servizio della menzogna e dell'ideologia. Abbiamo parlato con il regista per farci raccontare le scelte che stanno dietro al percorso.
Da cosa deriva la scelta di Himmelweg? Quali sono le tematiche del testo che l'hanno maggiormente colpita e che l'hanno guidata nella sua messa in scena?
La scelta di Himmelweg è stata completamente casuale: si tratta di un testo che non conoscevo ma con cui ho instaurato fin da subito un rapporto molto intenso. A mio modo di vedere, è una lettura incredibilmente affascinante del dramma della Shoah. Il suo approccio, infatti, esclude qualsiasi accento banalmente patetico e, pur partendo da un fatto realmente accaduto, riesce ad evitare la forma troppo semplice del teatro-documento. Mayorga utilizza l'argomento dell'Olocausto per affrontare il tema della manipolazione attraverso le parole, del potere che ha il linguaggio di modificare la nostra percezione della realtà. In questo risiede un'indubbia originalità e, direi, anche una certa dose di coraggio: invece di concentrarsi sul dolore prodotto dalla barbarie nazista, che sarebbe stata la scelta più ovvia, l'autore sposta l'attenzione su una questione più ampia, aumentando ulteriormente la portata teorica dell'avvenimento, già enorme di per sé. Il tutto unito a una capacità di scrittura e finezza drammaturgica veramente notevoli.
I testi che ha affrontato nel corso della sua carriera sono molto eterogenei. Esiste un filo conduttore che li lega? Come le scelte compiute rispondono alle sue esigenze di ricerca?
La situazione attuale dei teatri stabili italiani lascia al regista un ruolo molto marginale nella scelta dei testi. Tuttavia, ciò non mi ha impedito di trovare una certa coerenza e omogeneità nel modo di accostarmi a essi. Mi considero, per utilizzare un termine gramsciano, un “intellettuale organico”: per ragioni dovute alla mia storia personale, ho sempre cercato che i miei spettacoli assumessero una valenza civile, quando non direttamente politica. Credo che ogni testo nasconda fra le sue pieghe dei precisi riferimenti all'attualità, che il regista ha il dovere di non ignorare. In particolare, ho sentito un forte legame tra Himmelweg e Freddo (testo di Lars Norén, messo in scena da Plini nel 2011 per ERT, NdR): mi sembrano due opere complementari, come se una fosse lo specchio dell'altra. Entrambe parlano dell'odio nei confronti del diverso ma, mentre Freddo è estremamente reale, pervaso da una brutalità cruda, Himmelweg si costruisce come favola nera in cui la violenza è talmente rarefatta da risultare impalpabile, quasi assente, almeno nella forma in cui viene comunemente riconosciuta.
Pensa che l'Olocausto sia diventato un mito, una sorta di archetipo della coscienza occidentale?
Io credo che l'Olocausto sia un fantasma, un grande rimosso. Averlo definito come “il male assoluto” ha portato a non considerarlo più come si dovrebbe. Il fatto che sia diventato un simbolo dà la sensazione di averci fatto i conti una volta per tutte, ma non è così: il modo di pensare che lo ha prodotto è ancora tra noi, esistono altre forme di razzismo e discriminazione sociale che siamo incapaci di affrontare proprio perché ci sfugge la loro genesi storica. Mayorga cerca di smuovere questo rimosso, stuzzica il senso di colpa del pubblico, instaurando uno strano legame di connivenza tra quest'ultimo e il criminale nazista. In ciò il testo va assolutamente al di là del periodo particolare in cui è ambientato.
Nella messa in scena lo spazio viene scandito su tre livelli differenti: il piano della “finzione nella finzione”, connotato da un'atmosfera fortemente onirica, quello in cui si sviluppa la narrazione principale e uno che vede gli attori fuori dal palco, in platea. Si tratta di un'articolazione puramente visiva o assume una valenza anche cronologica? Quando il gerarca recita fra il pubblico, rivolgendosi direttamente a esso, mi è sembrato di leggere dei chiari riferimenti all'oggi, alla situazione paradossale che si sperimenta a trovarsi nei luoghi della follia nazista nei panni di turista...
Esiste un “turismo pornografico” verso i luoghi delle tragedie del XX secolo. È un meccanismo pericoloso perché rischia di agire da anestetizzante per la coscienza, scarica il nostro senso di colpa in modo deviato, acritico. Tuttavia, l'organizzazione dello spazio è legata a necessità visive: serve a evocare i fantasmi che popolano il testo di Mayorga, fantasmi che sono la personificazione diretta di quel senso di colpa che cerchiamo di esorcizzare in maniere stupide, con scorciatoie subdole. La grandezza di Himmelweg sta nell'inchiodarci senza appello ad esso, in modo da costringerci a capirlo e rielaboralo individualmente. L'opera è già tutta spostata nel presente, poiché mostra il processo con cui la realtà è stata costantemente elusa, tradita. Le parole e l'ideologia trasformano un atto mostruoso in qualcosa di totalmente altro: da qui si sviluppano il revisionismo e l'indifferenza. Himmelweg presenta una chiara triangolazione sul pubblico, la cui capacità di interpretazione e discernimento è sempre chiamata in causa, per il semplice motivo che gli riesce difficile parteggiare per uno dei personaggi. Il conflitto che si crea sulla scena, infatti, non è un conflitto tra un buono e un cattivo, bensì fra due persone che hanno contenuti coscienziali differenti, che sviluppano la propria vita su piani di realtà incomunicabili. Il criminale nazista assume i tratti del regista invasato. La sua è una violenza indiretta, molto sottile: consiste proprio nel trascinare Gershom su un piano di realtà manipolato, in cui l'abuso e la sopraffazione non possano essere riconosciute in quanto tali.
Su quali elementi si è incentrato il lavoro con gli attori? Il fatto che recitassero anche dei giovani allievi ha creato una sorta di interazione con i tre attori principali?
L'approccio al testo da parte degli allievi è stato, anche per motivi logistici, molto diverso rispetto a quello dei tre attori principali. Perciò, il lavoro è stato soprattutto di calibrazione, aggiustamento. Ho cercato di trovare la strana misura linguistica che facesse uscire i personaggi da un realismo naturalistico senza renderli troppo astratti. Come ho detto prima, si trovano su piani di realtà lievemente differenti tra loro e, dunque, permane sempre un sottile scarto fra le intenzioni di ogni singolo attore, le quali, però, sono state rese omogenee per non spezzare la scorrevolezza del testo.
Lei ha collaborato con Massimo Castri, che da alcuni è considerato l'ultimo rappresentante di un certo teatro di regia. Lo stesso testo di Mayorga, con la sua struttura meta-rappresentativa, problematizza il ruolo del regista in senso classico. Come si pone di fronte a questo interrogativo? Crede che l'impostazione tradizionale del lavoro registico debba subire delle modifiche?
Detto senza alcun intento polemico, credo che, al di là di dichiarazioni autopubblicitarie che spesso si sentono, il teatro di regia abbia ancora un ruolo molto importante. A parte alcune performance singole, in cui effettivamente il lavoro è solo attoriale, mi sembra impossibile prescindere da un controllo di stampo registico sullo spettacolo: esistono esigenze e questioni per cui il ruolo del regista si rende necessario. Forse, definire il proprio metodo di fare teatro come “teatro di regia” oggi assume una funzione di resistenza nei confronti di altre modalità, in cui si mira alla pancia dello spettatore. Vedo sempre più spettacoli che puntano quasi esclusivamente sulla sensorialità, giocando con le percezioni del pubblico, mentre credo che il teatro debba innanzitutto far pensare, stimolare domande e suggerire concetti.