La nona edizione di Vie si è aperta con una prima nazionale, Memento Mori di Pascal Rambert. Lo spettacolo mette in scena cinque performer nudi e si propone come una coreografia sull’origine del movimento. Nel buio assoluto, lo spettatore deve affidarsi ai propri sensi e all’immaginazione per lasciarsi trasportare in un mondo preistorico dove non esiste una storia ma solo immagini. Dopo aver visto lo spettacolo ne abbiamo parlato con il regista, autore e coreografo francese.
Memento Mori è la sua terza coreografia: come è nata e che legame ha con i suoi altri spettacoli coreografici?
Già in precedenza avevo scelto un titolo latino che potesse rimandare a più significati, nello spettacolo del 2008 Libido Sciendi: in quel caso si trattava del desiderio di conoscere, di accedere alla conoscenza con la C maiuscola attraverso l’incontro fisico, sessuale. Memento Mori invece è stato quasi creato qui, in occasione delle audizioni per Clôture de l’amour. Mi trovavo al Palazzo dei Musei e lì, all’ultimo piano, c’erano tre o quattro “Memento Mori”: opere pittoriche raffiguranti la morte.
ph Francesco Brusa
Per quale motivo in Memento Mori ha scelto solo performer di sesso maschile?
In Finlandia avevo visto Un conte d’amour di Markus Öhrn, spettacolo in cui erano presenti tutti i performer di Memento Mori. Li ho apprezzati davvero moltissimo e ho pensato che con loro avrei potuto dar vita a tutte le mie idee. All’inizio volevo in scena uomini e donne ma poi ho cambiato idea, perché non volevo si pensasse a un combattimento fra amore e odio. La mia intenzione era mostrare dei corpi in modo che non si capisse il sesso e, solo alla fine, arrivare a una rivelazione. Ci sono persone a cui non piace affatto la luce violenta con cui si conclude lo spettacolo, preferirebbero che l'opera proseguisse in un finale nel buio. Al contrario, per me è giusto riaccenderla e mostrare che questa illusione, questa bellezza che si intravedeva nel buio è immaginazione, è battaglia, è la condizione umana. In questo consiste la fascinazione di una finzione che creiamo con qualcosa di così semplice. In fondo si tratta solo di tende nere, di un po' di luce elettrica e di cinque ragazzi che intrecciano i loro corpi su un letto di frutta e verdura… quando chi guarda scopre tutto questo, prova una forma di delusione che trovo molto affascinante.
L’anno scorso, parlando di Clôture de l’amour, descriveva il regista come un etologo intento a orchestrare gli elementi in modo che permettano all'attore di dare il meglio. In Memento Mori c’è una grande struttura registica, si nota un nodo molto stretto con lo spettatore. Come ha lavorato con gli attori?
Nella vita mi piace conversare con le persone ma in genere quando lavoro non parlo molto. Quando abbiamo iniziato le prove di Memento Mori, i primi giorni ho spiegato ai ragazzi solamente che sarebbero stati nudi e al buio fin dall'inizio. Ho detto loro che non volevo mostrare niente, ho chiesto di non assumere alcuna posizione connotata sessualmente, di non ricreare immagini del ‘400 o pose che potessero stupire o essere intese come volontarie, ma solo movimenti che sembrassero vaghi, sfocati. Con queste indicazioni abbiamo iniziato a provare, ed è stato molto difficile non imitare nulla di ben definibile in un tempo così lungo, tempo in cui le persone dovrebbero riuscire a "creare" partendo dalla loro immaginazione. Se io guido eccessivamente chi guarda fallisco. Ho cercato di sparire, come regista, ma per creare le condizioni in cui chi guarda possa immergersi e produrre immagini. Quando la gente dopo lo spettacolo mi racconta cosa ha visto io non intervengo mai per chiarire gli elementi a mio avviso più importanti. L'arte che mi interessa di più è quella in cui si fatica a definire ciò che si sta vedendo, quando ciò che vedo mi permette di fare del lavoro nuovo. In Memento Mori ci sono dei “problemi olfattivi”, dopo un po’ non si capisce ciò che sta succedendo e s’inizia a sentire odore di banane, mele, pomodori. Accade qualcosa che non ci si aspetta.
Dal nostro punto di vista è come uscire dalla caverna di Platone, dopo aver visto molte immagini ci si chiede: “Cosa so adesso e che voleva dirmi?”
Mi pongo la stessa domanda e la risposta certamente non è “Ricordati che devi morire”, cioè la traduzione di Memento Mori. Non sappiamo mai da dove vengono certe idee… Alla base credo ci sia il sogno di andare a scavare nel nostro profondo per avvicinare la condizione umana. Per provare a capire, sono andato molto lontano, a 40.000 anni fa, nel periodo in cui inizia l’arte parietale. Penso che quelle immagini, quei tori, quei cavalli siano dentro di noi. Ognuno guarda attraverso la propria cultura. Ci sono persone che nello spettacolo dicono di vedere qualcosa di terreno, altre vedono i primi disegni nelle caverne, corpi di dinosauri e cavalli, vedono Dio ma anche scene sessuali, altre ancora vedono la morte. Alcuni spettatori, al contrario, non percepiscono nulla. Non posso accrescere la fantasia di chi mi sta davanti, Memento Mori è per chi non ha bisogno di cultura per immaginare: per vederlo non è necessario conoscere la storia dell’arte moderna e contemporanea. La mente umana di fronte a una creazione artistica diventa come una volpe che ha trovato un uccello morto in un posto di difficile accesso. Immaginazione e riflessione aiutano l’animale a superare l’ostacolo per riprendere la preda morta, ma le volpi che hanno mangiato bene se ne disinteressano, e la stessa cosa vale per gli spettatori. Lo scopo dell’arte quindi è porre dei problemi.
Dopo Clôture de l’amour cosa l’ha riportato indietro all’opera coreografica?
Il mio lavoro spazia tra diversi generi. Innanzitutto ci sono opere scritte, vale a dire opere teatrali per attori come Clôture de l’amour, che però è adatto solo a interpreti maturi, perché per recitare in questo spettacolo bisogna aver vissuto, avere esperienza sul palcoscenico. Poi creo spettacoli di danza "muti": trovo molto piacevole passare da momenti in cui ci sono fiumi di parole ad altri, al contrario, piuttosto silenziosi; è un grande stimolo, per me, trovarmi in uno studio di danza con dei performer e portare avanti un lavoro senza parole, qualcosa in cui il flusso dell’energia, il flusso vitale della creazione passa attraverso il movimento. Infine realizzo quelli che chiamo gli spettacoli d’ensemble: opere che mescolano professionisti e non, persone che hanno un talento e altre che non lo hanno, ad esempio qualcuno che sa cantare o danzare e altri incapaci di farlo. A questo percorso si affianca quello che compio nel teatro d’opera o al cinema. Ritornando alla tua domanda, gli spettacoli di danza sono legati dalla nudità. Ciò che unisce invece tutte le mie creazioni è la nozione di “tempo reale”, un frammento temporale nel quale i performer sono portati a vivere in modo autonomo. In Memento Mori esiste un quadro concettuale che è il buio, i performer sono nudi ed è importante che i movimenti siano lenti, perpetui e continui e che si crei un rapporto di estensione dei corpi. Le luci di Yves Godin appaiono in modo aleatorio su dei corpi che si muovono in modo vago. Ogni sera sappiamo bene che si formeranno delle immagini, ma non abbiamo idea di quali, l’unica cosa certa è che d’un tratto capiremo che si vedono delle forme, dei corpi.
Lei dirige il teatro di Gennevilliers. Come si lavora in un luogo così a ridosso della capitale?
La periferia di Parigi, pur molto ben collegata, è vissuta come molto distante dalla città, così occorre pensare a una programmazione che non replichi l'offerta già esistente. Uno dei miei compiti è cercare i migliori artisti in tutto il mondo e inserirli in un disegno di programmazione con una forte personalità. Mi piace pensare ai teatri come a esseri umani: il mio teatro, attraverso la molteplicità di progetti che proponiamo, mi piacerebbe fosse vissuto come un corpo umano, nel quale convivono l’immaginazione, il cervello, il sesso, il sudore, il sangue.
Cosa chiede al pubblico?
Non chiedo nulla, propongo loro ciò che penso sia il meglio… In un certo senso posso dire di esserci riuscito, dal momento che la sala è sempre sold out. È stata dura, a Gennevilliers non era scontato farcela, soprattutto in questo periodo economico in cui la cultura è in difficoltà. Non credo a chi afferma: «Questo spettacolo non è adatto per il mio pubblico», non credo ai tanti professionisti che continuano a programmare quello che si è sempre fatto e non cambiano. Nel mio teatro ho iniziato proponendo opere comunemente considerate difficili e ora il pubblico non vuole tornare al "vecchio teatro". Per me questa è una vera vittoria.
A cura di Sonia Logiurato, con la collaborazione di Matteo Vallorani
Laboratorio per uno spettatore critico, Vie Festival 2013