All’interno di Vie 2013 si è svolto il laboratorio Autocritica, condotto da Piergiorgio Giacchè, che ha visto l’incontro di giovani attori con tre importanti personalità della critica teatrale, quali Renato Palazzi, Franco Cordelli e Oliviero Ponte Di Pino. Al centro dei dibattiti, tenutisi alla biblioteca Delfini in tre differenti giornate, l’azione critica come momento fondante della pratica teatrale. Abbiamo chiesto all’antropologo e studioso di parlarci dei temi e delle problematiche emersi.
Ci può fare un bilancio degli incontri?
Innanzitutto, vorrei fare una precisazione sul titolo degli incontri: Autocritica. È un termine che non va assolutamente inteso nel senso di “espiazione” ma di “orientamento”, scelta della critica come terreno comune per l’incontro tra persone che hanno ruoli diversi all’interno del mondo teatrale. La volontà di porre al centro la critica deriva da una constatazione di fondo: il pensiero critico in quanto sorgente della cultura è stato abbandonato e questo ha come conseguenza il fatto che ora ci si applica direttamente al teatro, senza esser passati prima da esperienze intellettuali che possano fungere da orientamento, appunto. Il dato su cui ho cercato di focalizzare l’attenzione è quello per cui nella pratica teatrale l'atto critico è doppio: sia da parte dell'attore che da parte di un pensiero che vi si applica posteriormente.
Un atto critico condiviso dall'attore e dallo spetttatore, quindi...
Il rapporto tra attore e spettatore è stato messo al centro del percorso, dal momento che mi pare essere un grande assente dei discorsi che si producono sul teatro: è difficile, infatti, che le recensioni degli spettacoli si concentrino su tale aspetto. Questo perchè lo spettatore non si identifica col pubblico: il primo sta all'attore come il secondo sta all'opera e, perciò, le valutazioni sono rivolte soprattutto ai poli dell'opera e del pubblico. Tuttavia, penso che la parte viva dell'accadimento teatrale, l'incontro vero e proprio, si trovi nel corpo a corpo che si genera fra attore e spettatore, in un'interazione non a senso unico ma assolutamente circolare. Se torniamo ad Aristotele e al famoso capitolo della catarsi, che per certi versi è rimasto un mistero, notiamo come lì si spiegasse il meccanismo catartico nei termini di una commozione alla lettera, com-muovere. Intendo che, oltre alla catarsi prodotta dall'opera e dalla sua struttura, c'è una catarsi interna, molto più diretta, che involve spettatore e attore in un rapporto immediato, quasi fisico. Il giudizio nasce necessariamente da una reazione che lo precede e che si sviluppa in modo spontaneo; vale a dire che esistono, dentro a uno spettacolo, degli incanti, delle disponibilità, che lo spettatore può veramente toccare con mano. Il problema, perciò, non è neanche umano, è animale: ogni opera, seppur brutta o finanche repellente, ti conduce a confrontarti con la tua vita animale, a intessere con essa una relazione. Si dice del teatro che è uno spettacolo vivente perchè dentro dev'esserci la vita e questa non può che manifestarsi nell'attore e nel suo corpo.
Ora, il filo rosso che legava gli incontri era appunto la ricerca di questo tipo di fruizione puramente emozionale, senza l'aggiunta di alcun pensiero ulteriore, che io vedo come momento fondamentale dell'atto critico dell'attore e, allo stesso tempo, dello spettatore. Un tale atteggiamento primario verso il teatro ci è continuamente sottratto da diverse “perversioni” intellettuali, talvolta alimentate anche dai festival a caccia di un pubblico sempre più ampio, che sommergono la nostra parte reattiva e spontanea in favore di un giudizio costruito e, per certi versi, insincero.
Ciascuno a suo modo, dunque, ha provato a fare i conti con questa sua parte, chi, come Cordelli, ripercorrendo la propria carriera, o mettendo in discussione il ruolo del critico, è il caso di Palazzi, o tramite provocazioni, proposte da Ponte di Pino, sulla possibilità di sostituire gli attori con degli androidi. Le reazioni dei ragazzi mi sono sembrate molto partecipate quindi direi che, in definitiva, è andata bene.
Venendo a domande più generali: come giudica la situazione in cui si trova il teatro contemporaneo e quali strade, fra quelle che si stanno esplorando al suo interno, reputa maggiormente interessanti?
I classici discorsi che si fanno a riguardo, secondo i quali la grande stagione del teatro è finita perchè non ci sono più maestri, sono giusti ma restituiscono solo una parte della verità. Se guardiamo all'altra faccia della medaglia, vediamo che si è liberata tutta una serie di energie e provocazioni che costituiscono novità effettive. Non bisogna farsi intimdire dalla Storia e dai nomi che ci hanno preceduto. Si tratta di un meccanismo che opera anche in politica, dove date spartiacque come il '68 o il '77 diventano poi eredità difficili da gestire. Il problema è che si rischia di cadere nell'autoassoluzione o nello sconforto, quando invece occorre essere consapevoli che le innovazioni epocali passano da esperimenti anche piccoli, che alcune concezioni dell'arte definirebbero “minori”. Sicuramente viviamo un periodo in cui è sempre più difficile produrre teorie “forti” e questo succede perchè gli investimenti di chi si occupa di cultura non sono a lungo termine ma cercano un riscontro subito, si muovono in un'ottica da “brucia e getta”. Il “talentscoutismo” serve fino a un certo punto, occorre, al contrario, più apertura: se affrettiamo il giudizio, invece che sospenderlo, diventiamo più avidi e la critica scompare, lasciando solo la sua parvenza esteriore. La domanda che bisogna porsi di fronte a uno spettacolo è: cosa mi ha dato criticamente, ancor prima che esteticamente? Cioè, è in controtempo? Assume una posizione critica nei confronti del presente? Vedi, la misura estetica sconfina molto spesso nel gusto, nelle classifiche, nel pullulare di voti e stelline che troviamo sui giornali, perchè implica paragoni col passato e, dunque, tentativi di incasellamento e classificazione. Al contrario, ciò che conta è la misura critica, dal momento che ti consente di capire su un artista è andato “contro” al suo tempo, anzichè “incontro”; la televisione è piena di gente che va incontro e, per dirla con una battuta, il teatro inizia ad abbondare...
Spostando il nostro discorso più in generale, il vero nodo gordiano che caratterizza la situazione contemporanea è la commistione, costantemente in crescita, fra teatro e performance. Oltre ad aver dato frutti innegabili sul piano degli incastri del linguaggio, cosa che certamente continua a fare, tale commistione fornisce però anche un passaporto di liquidità alla Bauman, che è stato assorbito da tutti, diventando un fenomeno endemico. La performance porta con sé caratteristiche di accessibilità e democraticità che schiudono nuovi orizzonti ma, allo stesso tempo, degradano e confondono. Si è prodotta una concezione per la quale qualsiasi attività, anche la sagra del gnocco fritto, per fare un esempio estremo, è cultura. Tutto ciò, per chi ama il teatro - che, sia ben chiaro, è indefinibile in quanto tale - è certamente un nodo problematico con cui occorre fare i conti.
Come si è prodotto lo spostamento di cui parla?
Io credo che questa situazione risponda a una nuova committenza sociale. È convinzione comune che, dopo la polis, la borghesia e la post-borghesia (ciascuna delle quali ha imposto un certo tipo di teatro), sia venuto da tempo a mancare un committente sociale nell'arte. Si tratta di una sensazione anche di grande autonomia, di estrema libertà nella pratica estetica. Tuttavia, a mio modo di vedere, la globalizzazione, intesa come mercato, è il nuovo committente sociale. Essa sta fornendo da anni materia prima e indicazioni seconde al teatro e, a meno che non cambino i suoi meccanismi interni, imporrà la dimensione performativa “liquida” come lo spettacolo vivente dell'oggi e del domani. Nessuno scandalo, ovviamente, l'arte ha sempre tratto linfa vitale da queste dinamiche, ma, se l'analisi è corretta, diviene necessario acuire il senso critico e l'attenzione verso la qualità, nel senso di contributo professionale. Il laissez passer predominante oggi, che poi non è altro che un modo per fornire merce nuova al mercato, è troppo comprensivo, benedice tutto e tutti. Servono invece più filtri e più classifiche che mettano in luce le differenze. Per questo ho insistito sulla critica come terreno del pensiero, prima ancora che come atteggiamento specifico nei confronti di un'opera.
Questi filtri e la rigidezza che comportano non rischiano di produrre quella critica sterile, rivolta al passato, che lei stesso ha definito dannosa?
La critica oggi si sposta dal giudizio, ma solo apparentemente. Ci sembra così perchè tende a non stroncare, ma ricordiamoci che la critica può essere intesa anche come approvazione ed esplorazione. Insisto, il punto è che manca un terreno critico che preceda le valutazioni singole. Personalità come Chiaromonte vivevano di cultura critica e questo si rifletteva inevitabilmente nei loro giudizi, sia che fossero negativi o positivi, cosa che, in fin dei conti, ha poca importanza. Quello che conta è l'apporto critico ulteriore che tu applichi a un'opera, il quale ti permette di ampliarne le referenze e i significati. Se non aggiungiamo il dubbio a ciò che vediamo, anche dopo che ci è piaciuto, siamo fuori linea. Il processo critico consiste semplicemente nell'esplicitare la tua reazione nei confronti dell'azione dell'autore, una volta capita la sua intenzione, ma il valore di tale operazione è maggiore se tutti i passaggi si trovano già immersi in una dimensione critica. In teatro c'è più critica dentro che fuori. Per questo oggi si inzia a capire che, al di là del prodotto finale, ciò che conta veramente è il processo, il che significa porre attenzione alla parte artigianale di uno spettacolo, ai mezzi utilizzati e al modo in cui le loro potenzialità vengono sfruttate.
Una certa critica si sta muovendo sempre di più di festival in festival, come se quello fosse il suo habitat. In che modo la “forma-festival”, sempre più ricorrente, influenza la fruizione degli spettacoli?
Una volta il festival era un acceleratore che permetteva alla stagione di avere altre sponde. Sicuramente il fatto di essere immessi in un tourbillon di spettacoli, in una dimensione di ricchezza quantitativa quasi da supermercato, è eccitante e porta a incuriosirsi, ma rischia di essere controproducente per i tuoi ritmi e i tuoi incontri veri. Io credo che l'errore stia nel portare avanti stantie stagioni in cui spendere troppi soldi per mantenere cadenze “liturgiche” che, alla prova dei fatti, hanno poco senso. Forse, se si togliessero soldi alle stagioni e si modificasse la loro struttura, invece di accendere svariati festival frenetici si potrebbe guardare al momento della stagione in maniera maggiormente costruttiva, confezionando scadenze più intense in cui abbia senso fare qualche scambio. Gli equivoci dei festival oramai sono tanti: nascono come eventi ma spesso diventano una capsula che viene guardata al posto degli spettacoli. In mezzo ci sono vari nodi problematici, come la ricerca del consenso, che è qualcosa di preventivo rispetto al desiderio di successo. Il successo, come diceva Carmelo Bene, è un participio passato e in quanto tale segna un accadimento. Insomma, certamente la forma-festival va ripensata, senza dimenticare che sono però l'unico contesto in cui poter presentare studi o progetti in fieri, con tutta l'importanza che, come abbiamo visto, queste tipologie hanno assunto nel teatro contemporaneo.