Restano parvenze irrorate da fili di luce e da tremori elettronici. Memento mori di Pascal Rambert invita ad acuire i sensi, lasciandoci nel buio quasi completo per una cinquantina di minuti. La condizione non è quella della privazione della vista, ma di una assenza di luce in cui si fa di tutto per vedere, spingendo gli occhi al livello dell'udito e dell'odorato, stimolando una percezione tattile con un crescendo di vibrazioni sonore provenienti da casse subwoofer. Là seduti, diventa chiaro che il regista, drammaturgo e coreografo francese ci chiede di attivare l'immaginazione, di costruire immagini a partire dai fantasmi che produce la scena.
S'intravedono delle sagome nell'oscurità, figure umane che barcollano nello spazio, anime sepolcrali in preda a un risveglio o a una prossima fine. Hanno la consistenza visiva di immagini grafiche a bassa risoluzione. Sembra che si cerchino, probabilmente si riconoscono; si avvicinano per istanti prima che tutto torni nero. Poco accade davvero nell'atmosfera di attesa, fino a un rumore di tessuti che si tendono. Qualcosa si strappa, dell'acqua viene versata, i corpi si aggrovigliano in un grumo di carni. Le immagini sonore di Alexandre Meyer, a differenza della trama visiva costruita dalle silhouette e dalle luci di Yves Godin, a tratti sembrano volerci portare in territori dalle precise referenze, come del resto è inevitabile che accada se si sfrutta la componente mimetica della sostanza sonora. Allora quel groviglio evoca una nascita, così come il contorcersi dei performer che scivolano a terra ci invita immaginare una poltiglia di materiali organici, di viscere, di placente disfatte. Gradualmente si alzano le luci e viene acceso un faro dal fondo. I cinque, dopo essere nati, si accasciano inerti su resti di banane, uva, melanzane, pomodori. Infine si alzano e ci guardano spaesati.
Dopo il sorprendente Clôture de l'amour, visto a Modena nel 2012, Pascal Rambert riprende i fili di una indagine sulle scorrere del tempo segnata dalla concentrazione del segno della danza. Volendo tentare paragoni, questo Memento Mori si colloca in un discorso delle arti sceniche europee praticato da molti, quando si discute di rappresentazioni minandone i contorni, quando si offrono evocazioni procedendo per sottrazioni (come non pensare ai certi fantasmi delle presenza di Romeo Castellucci, o a talune “macchine vive” di Heiner Goebbels?). Rambert sembra domandarci di lasciar perdere tutto tranne il dispositivo, se questo ci travolge. Prima, molto prima di un movimento che rimanda solo a se stesso, per Rambert c'è un bozzolo informe indeciso fra postumano, preorganico e Revenants. Suggestioni a parte, vien da chiedersi cosa resti una volta compiuto l'abbandono (dei linguaggi, di chi guarda). Qualche immagine attraente, qualche refolo di racconto. Se questo è quanto possiamo chiedere alla scena, in questo spettacolo resta poco, troppo poco.