«Non è detta
che prima ancora del giorno del Giudizio
quei pazzi F. P. non vi mettano in minoranza.
Forse vi converrebbe cominciare qualche esercizio
per trovarvi preparati alla possibile circostanza».
Elsa Morante, La canzone degli Infelici Molti e dei Felici Pochi
Servirebbe una mappa per orientarsi, un messaggio segreto che ci indichi la direzione da prendere. Per arrivare a San Felice sul Panaro, piccolo comune in provincia di Modena, a un passo da quelle di Ferrara e Bologna, si attraversa un reticolo di strade rette, circondate da campi pianissimi e luminosi. Comincia così il Viaggio al centro della terra, alla ricerca di un teatro che ci ponga le domande necessarie, ma che nello stesso tempo ci possa guidare per un tratto, avviare i nostri passi, fosse solo per spostare il nostro sguardo sulle cose che abbiamo intorno. Nella piccola mensa dell’ex scuola elementare troviamo diciassette ragazzini ad attenderci. Indossano dei giubbetti catarifrangenti: sono bambini di San Felice e Mirandola, paesi scossi dal terremoto appena un anno fa. La non-scuola di Marco Martinelli, con tre delle sue guide (Alessandro Argnani, Elisabetta Granara, Alessandro Renda), è arrivata qui lo scorso autunno per organizzare un laboratorio con i bambini e gli adolescenti del posto. Come spesso accade, la ferita, la crepa che apre allo scompiglio, si trasforma in apertura nuova, destinata alla fioritura.
Foto Castorp
Un aeroplano di carta si rivela essere un antico documento su cui sono scritte, in un misterioso linguaggio criptato, le indicazioni per raggiungere il centro della terra. Bisognerà passare attraverso un buco aperto dal terremoto. Le avventure raccontate da Jules Verne sono la trama evidente e stravolta che muove le azioni, ma tutto sommato quello a cui si assiste è un laboratorio aperto, una sequenza di esercizi di presenza e relazione che vengono guidati in tempo reale dalla voce di Martinelli. Da soli, in cerchio, in schiere, a coppie o gruppo compatto, queste figurette, sempre più riconoscibili nello spazio, ognuna con il suo sguardo e la sua postura seguono le indicazioni del regista, mentre i loro nomi restano attaccati al muro sopra la posizione che occupavano all’inizio. Ma ciò che ne vien fuori non è una soluzione facile: il dramma di cui i ragazzini, messi in situazione, si fanno figure, trapela una complessità segreta, portata da una struttura semplice ma stringente, che vibra del suo contenuto sottostante senza mai rivelarlo completamente. Come parlare del disastro, dipingerlo, raccontarlo? Martinelli sceglie di mostrarlo, lasciando la scena a chi può guardare il dolore con occhi sempre nuovi e trasformarlo senza rimuoverlo. I bambini sono il terremoto buono che apre il centro della terra: il punto in cui tutte le prospettive si equivalgono, il punto di fuga del teatro in cui le potenzialità sono ancora infinite. «Non ci sono spazi vuoti nel centro della terra!» grida Martinelli ai ragazzini, che corrono veloci qua e là per riempire tutta la scena, nell’impossibile tentativo di non lasciar nulla di scoperto. Ma è l’intenzione a colmare tutto a tenerli in moto, in uno slancio che non si esaurisce. Poi inizia la discesa: fermo sul posto, ognuno è invitato a tremare immaginando la discesa nel buco. «Non finisce mai questa caduta?», si ripete tutti in coro. Improvvisamente la luce si spegne. Un attore con una torcia esplora il pavimento illuminando mani, gambe, occhi chiusi. L’immagine spaventosa degli effetti del terremoto lampeggia nitida, ma dura un istante. Subito dopo torna la luce della stanza, e comincia il racconto. Anche qui si tratta di lampi, piccoli squarci sulla quotidianità familiare di ognuno. Ogni ragazzino pronuncia un frammento di ricordo, una tessera della catastrofe con cui ricomporre il mosaico: i piatti che si rompono, due fratelli che si tengono per mano, una bambina cha abbraccia un albero, il disegno di un mostro, fatto a scuola, per rappresentare il terremoto. Se per Jean-Luc Nancy «l’immagine pura è, nell’essere, il terremoto che apre la falla della presenza», le immaginette evocate dai bambini sono davvero la scossa che spalanca il buco del non-dicibile, del non-rappresentabile. Un gioco si rovescia in tragedia, la tragedia precipita in bellezza. Il mostro è diventato letteralmente monstrum: “monito”, “avvertimento”, “ricordo”.
Basterebbe questo a capovolgere per un attimo la prospettiva, a farci fare esperienza del disorientamento. Ma la non-scuola, laboratorio permanente di asinità, va ancora un po’ oltre. Il vero mostro siano noi, gli spettatori, l’elemento straordinario del teatro, misteriosa creatura «a cinquantun teste». I ragazzini lo sanno e ci invitano sulla scena, si siedono al nostro posto. Frequentare il teatro vuol forse dire essere sempre in cerca di una metamorfosi che avvenga sotto i nostri occhi. Vorremmo essere testimoni del cambiamento, vedere la forma trasformare la sostanza, lasciarci credere che sia possibile. Attraverso il viaggio di questi ragazzini, che è una gita dentro la loro memoria, giù verso il centro della terra, Marco Martinelli rovescia le prospettive e lascia uscire fuori un piccolo capolavoro, dove la discesa può essere anche una risalita e i brutti ricordi diventare creazione. C’è un po’ di Alice e c’è un po’ di Dorothy in questo viaggio, le adolescenti irrequiete che precipitano nel sottosuolo e si perdono nel vortice; c’è il romanzo di formazione che trasfigura la catastrofe in spaesamento, quella perdita del paese che riavvia daccapo la percezione del mondo e ne scardina gli automatismi. E così noi, novelli allievi, tutti presenti, ci ritroviamo infine a eseguire gesti e suoni, a gridare e cantare, a ri-conoscerci dentro ciò che abbiamo appena visto. Finché l’arrivo di un immaginario scuolabus non interrompe il gioco e ci porta tutti via.