Due uomini e due donne in uno spazio vuoto, la scena una grande stanza con le pareti grigie, una palestra, vicino al fondale un cavallo con maniglie.
Répétition di Pascal Rambert è un lungo flusso di coscienza affidato a quattro voci a quattro corpi: un monologo dietro l'altro. Gli attori si muovono, spostano i loro corpi e le loro presenze sulla scena nel nevrotico tentativo di mantenere in equilibrio un discorso difficile. Un discorso politico.
Rambert usa Stalin per affrontare una contraddizione, l'inabissamento di un'ideologia con milioni di morti. «Come bisogna interpretare l'intromissione istantanea della parola Stalin nello spazio del suono? Stalin nello spazio di oggi?» Lo fa evocare ai suoi attori, ma senza rimozioni storiche: che teatro è, dunque, quello a cui stiamo partecipando? È la chiacchiera polverosa e engagé di una stanca sinistra post sessantottina o è la scelta di scrivere l'interrogativo: con quale discorso politico ci pensiamo oggi? Come il teatro interroga ciò che è fuori?
C'è un dubbio di fondo, chi sceglie il discorso - e in questo caso un coro fatto per giustapposizione successiva di quattro monologhi - sceglie una forma antica, quella di un teatro che parla un linguaggio che non appartiene più al nostro presente di poca sedimentazione e di occultamento dei problemi grazie alla battuta facile. Un teatro che ci fa vedere allo specchio, e noi lì ci sembriamo fantasmi.
Stanislas Nordey, l'attore che recita la parte finale di Répétition, cechovianamente dice «noi eravamo nella luce e voi nell'oscurità, adesso voi entrate nella luce e noi passiamo all'oscurità, sgozzateci. Saccheggiate le nostre case, tagliate le nostre foreste, i nostri bei ciliegi, noi vi diamo tutto».
Prosegue e si interroga sull'esito del lavoro di una scrittura teatrale che finisce per produrre drammi borghesi che partono dalla vita di chi scrive, si risponde che è il caso di lasciar perdere. Soprattutto se le relazioni avvengono in uno scenario benestante e sordo al presente come quello degli abbracci e dei baci in una golf nuova di zecca.
Emerge l'isolamento delle relazioni, dell'amore, tutto è asfittico. E allora un appello «Ragazzi, ragazzi, giovani uomini e giovani donne giovani svegliatevi», l'ultimo attore è un messaggero che ripercorre lo spettacolo, l'evocazione di Stalin, le carneficine, i milioni di morti, ma anche i poeti, l'amore, il tavolo, le riunioni e può permettersi così di lanciare un nuovo appello. Questa volta però stabilisce una connessione tra se stesso e i giovani a cui si rivolge: «Giovani, giovani non possiamo continuare a vivere così, guardate i corrotti, ci siamo venduti, ci siamo venduti tutti senza problemi».
L'ideologia che ha vinto è presente ed è quella di un sistema di capitali che ha comprato tutti. «Abbiamo incominciato il secolo con il petto gonfio di sogni», «volevamo cambiare il mondo», «volevamo separarci dalle vecchie rappresentazioni» e infine ancora più esplicitamente «bisognava opporsi, sgozzare sulle loro terrazze a picco sul blu cobalto del mare sotto la luna». Sembra una testimonianza raccolta prima di un annegamento, si sente il peso di una complicità non voluta con chi ha compartecipato al disastro e il desiderio di uscirne con compagni di viaggio diversi. «Ci rialzeremo e ricominceremo e ripeteremo e proveremo»: répétition, appunto.
Lo spettacolo mette da parte il linguaggio degli slogan, se si recuperano frasi fatte è per smontarle, se si racconta la storia è per farne emergere le contraddizioni. In più in ogni momento si coglie un interrogativo su cosa fare, su come agire alla luce di tutti gli sbagli.
I motti che diventano mantra - gli slogan che rintronano - costruiscono il mondo che vorrebbe essere rappresentato dal sistema come post ideologico. Davanti a questo Rambert fa un discorso diverso: mette in scena un discorso compiuto che descrive posizionamenti di campo, non si vergogna di mettere in relazione ideologia e armonia, non il ripiegamento dunque, ma la ripetizione di una invocazione all'azione in un contesto di non isolamento.
Finito il monologo le luci della palestra si affievoliscono, entra una ginnasta con il nastro e danza fra i quattro corpi abbattuti, è un'armonia disperante. La richiesta di ascolto di quel discorso su arte e politica è ancora più forte osservando una danza crepuscolare.
Abbiamo bisogno di non perdere la capacità di seguire un discorso politico, quelle quattro voci continuano a risuonare anche dopo. Anche quando è domenica mattina la città è deserta e si ha come la sensazione che sia tutto finito: «Se la mia generazione ha vissuto la fine delle ideologie, che cosa viene dopo? La fine dell'utopia?»