Nel tuo percorso come autrice fino a questo momento è presente un'intenzionalità radicale che prende le mosse da un accurato lavoro sull'unicità della figura in scena, agita in un incessante relazione con lo spazio che ti circonda. La tua scena appare scarnificata, sviluppata attorno a pochi elementi, appunto il gesto e lo spazio. Mentre Umo era imprigionato in una luce circolare e appiattito in un orizzontalità che non abbandonava mai il pavimento come superficie da esplorare, Doma costruisce delle azioni all'interno di una pedana da cui la figura non scende. E' evidente in questo una tensione verso il concetto di limite. Ci racconti cosa accade in Doma partendo da questa parola chiave?
Con estrema sintesi potrei descrivere tutto il mio lavoro come la presentazione di una figura che si dà allo sguardo all'interno di uno spazio limitato o dalla luce o da una particolare configurazione dello spazio stesso. La mia ricerca abbraccia ed esplora proprio il concetto di limite, come determinazione ed insieme apertura del possibile. Infatti limitando il mio movimento, amputando lo spazio percorribile e togliendo tutti gli eccessi cerco di mettere a nudo i pochi elementi fondanti. L'obiettivo ultimo del mio studio, dell'esplorazione della vicenda scenica, è eliminare tutto ciò che è imitazione o mimesi per tentare l'incontro con un'essenza della forma e del gesto. Doma costruisce delle azioni all'interno di questo spazio circoscritto, appunto la pedana rettangolare, ma a questo si aggiunge una vera e propria cecità della figura che ha il volto coperto, perdendo in questo modo ogni profondità di visione. L'unica distanza visibile è quella rapportata al corpo, alla punta dei miei piedi.
Ci tengo a dire che Doma è stato un lavoro dalla gestazione lunga e complessa che ancora non ha raggiunto una conclusione, anche se apparentemente può sembrare il contrario. Ogni volta che lo presento al pubblico trovo sempre qualcosa da ribadire o aspetti che si devono trasformare. Questo in generale è vero sempre perché il tipo di ricerca che voglio intraprendere è fondato sulla dinamica, sul movimento, sul gesto, e il gesto non può essere deciso e confermato, si riconferma nel suo farsi e riconfermandosi viene ripensato, non rimane mai identico. In Doma le uniche cose sicure e fissate sono la partitura audio e l'allestimento scenografico, una pedana rettangolare da cui l'azione non può evadere, ma la figura in sé trova sempre una modifica, una trasformazione.
Questo continuo ridisegnare la figura in Doma nasce anche dal fatto che lo specifico dell'azione è quello di creare un atlante, una raccolta di figure in movimento che si rappresentano attraverso l'uso delle articolazioni. Un vero e proprio linguaggio di arti, di gambe di braccia e di testa. La partitura fisica si presenta proprio come una disciplina di arti, infatti la doma è il primo rapporto che l'uomo ha con il cavallo e con altri animali.
Doma sembra evocare proprio l'universo animale, sempre attraverso il tuo personalissimo processo di traduzione corporea di un'eventuale referenza al mondo reale.
Questo è accaduto anche perché il primo germoglio creativo per Doma è stata una registrazione - che non avevo pensato come legata a una realizzazione scenica ma semplicemente come una personale sperimentazione audio - effettuata in un maneggio, tra i cavalli. La drammaturgia del lavoro mi ha mosso in direzione di un avvicinamento fra l'uomo e l'animale, inizialmente in maniera molto soffocante a causa di questa presenza equina nella traccia audio, per cui mi sono trovata condizionata a viaggiare in parallelo con quel tipo di movimento, di rimando. Con il susseguirsi delle rappresentazioni e a forza di misurarmi col pubblico e con l'azione si sono sviluppati altri tipi di evocazioni animali, e tutto un universo di quadrupedia che a volte però vira anche verso l'idea di invertebrato.
Ma questa disciplina di arti si esplica in una forma anche geometrica, come astrazione, non solo come evocazione animale...
Si è vero, c'è un continuo basculare tra l'astratto e il naturalistico, in alcune parti si tratta proprio di una geometria pura, in altre è più tattile, direi quasi carezzevole, quasi più umana. Mi interessa cercare di costruire questo equilibrio tra una dimensione umana e una che non appartiene al regno dell'umano, ma a quello animale inteso nell'accezione più ampia possibile, appunto come non-umanità. Pensandoci anche Umo è stato descritto come un invertebrato, come una farfalla che non vola, dunque questa idea dell'animale in qualche modo riappare. Per quel che riguarda la geometria, forse la dimensione di astrazione formale nasce anche dal fatto che quasi sempre la mia ricerca è accompagnata dal disegno, prima disegno la posa di una figura o le caratteristiche di questa figura e poi la metto in dinamica, sperimentando come il movimento può arrivare a questa forma e in seguito da questa posa, da questo disegno, continuare.
Il tuo articolare la visione non si esplica solo a livello figurale...
No, infatti in Doma c'è un forte studio sulla percezione visiva, un continuo insistere su un ribaltamento di piani, su uno spostamento di assi. Mi sono interrogata su come poter mostrare il fronte e il retro della figura in movimento, per cui il gesto è sempre ripetuto in tante prospettive diverse e avendo come limite quello della pedana era evidente che una capovolta non poteva essere l'unica soluzione possibile. Per esempio ci sono tantissimi slanci ed elevazioni per cambiare il fronte della visione attraverso piccole fasi di volo, rese possibili anche dal supporto elastico della pedana.
Questo ha spinto verso una ricerca di movimenti “infiniti” che di fatto porta a una non conclusione dell'azione, semplicemente dopo un certo periodo di tempo il buio chiude la visione, ma non è un finale dichiarato anche perché il mio obiettivo era di creare sequenze ritmiche illimitate.
In tutta questa ricerca sull'intensità e la natura dell'azione, cosa rimane nel tuo lavoro dell'esperienza come coroginnasta alla Stoa?
La cosa più importante dell'esperienza della Stoa è l'accanimento sul gesto, il non stancarsi a ripensarlo.
Questi limiti di cui tu parli hanno qualcosa a che fare con le condizioni produttive, c'è un adeguamento in questo senso o è principalmente un fattore di costruzione del tuo linguaggio?
Con i lavori più recenti ho incontrato alcune persone che si sono avvicinate al mio lavoro e hanno trovato nella mia proposta scenica qualcosa in comune con la loro ricerca, e ultimamente sono nati anche degli interessanti discorsi di collaborazione, ma all'inizio l'unica risorsa era nel mio corpo. Questo per me significa un'indipendenza totale, come per esempio accade nel pensare l'audio e le luci, tutte scelte che nel principio si sono consumate su di me. L'indipendenza degli inizi, la chiusura in sé credo che serva anche per buttare i semi della ricerca, per capire come presentarla, quali sono le cose che ti muovono per rappresentare un'azione teatrale. E' proprio in questa chiusura e indipendenza che nasce il mio movimento, il mio gesto, il mio pensare l'azione.
Dal punto di vista produttivo, se qualcuno si avvicina al mio lavoro lo fa in modo spontaneo, la voglia di sperimentare insieme è molto importante. Attualmente collaboro con Manuela Savioli, che si è occupata della configurazione dello spazio. Proprio nella chiusura di cui ti ho parlato, dove nasce il gesto, sto scoprendo l'importanza di avere delle contaminazioni: mi servono moltissimo anche per mettere in discussione la ricerca.