L'impianto spettacolare costruito dai Menoventi congela e rapisce come promette la temperatura segnata dal nome del gruppo, per avventurare gli spettatori nei territori infidi abitati da questa giovane coppia, Consuelo Battiston e Alessandro Miele, con Gianni Farina che orchestra i pensieri e le azioni trasferendosi in quest'occasione fuori scena, dove ogni passo scricchiola come sul ghiaccio di un'improvvisa consapevolezza. La donnina di casa biancovestita ha a fianco un compagno burlone e farsesco con cui intreccia un dialogo allitterato che si annoda in un prolificare di anafore, in cui gli invitati si invitano, gli ospiti si ospitano e gli spettatori aspettano, insieme ai protagonisti, una festa che non arriverà mai, se non in un finale disastrato e allucinatorio che cade come una scure sulle aspettative dei due personaggi. In festa si dilata e si incanta sul crinale di un'attesa, di cui un semaforo ne lampeggia l'emergenza e un campanello ne frustra il desiderio, facendo apparire in scena, anziché i fantomatici invitati, regali non richiesti che replicano le ossessioni degli attori, condannandoli a una continua ripetizione di minuzie ansiose che sembrano dire dei tanti automatismi con cui si cerca di ignorare l'abisso. Tra echi di Beckett sparsi in un dilagare di arti monchi e manichini mozzati, in uno sfaldarsi di gesti e proposizioni, Menoventi costringe l'assurdo a parlare di quel vuoto inesorabile, di quella mancanza di cui si pensa si orlata la vita e che invece è da questa fondata, ma con la leggerezza e l'intelligenza di chi sa sorridere anche dell'inevitabile.