Come nasce la compagnia Menoventi?
Ci siamo conosciuti lavorando con Marco Martinelli. Tutti e tre abbiamo partecipato a “Epidemie”, il laboratorio Ert preparatorio alla messa in scena di Salmagundi. Dopo alcune repliche dello spettacolo il gruppo si è sciolto, ma noi tre già verso la fine di quel progetto avevamo deciso di intraprendere una nuova esperienza insieme, e circa un anno dopo la fine delle repliche abbiamo iniziato a lavorare.
Parliamo di In festa, lo spettacolo che avete presentato a Longiano.
In festa ha una gestazione di un paio d’anni: abbiamo lavorato molto lentamente e nel tempo è cambiato moltissimo. Quando abbiamo partecipato a “Scenario” avevamo costruito una prima parte che poi abbiamo demolito completamente. Solo nell’ultima fase di prove lo spettacolo ha raggiunto quello che ormai è adesso, anche se ci sono cose che continuano a variare, in particolare il finale non è mai definitivo.Il punto chiave di questo spettacolo è la mancanza. Le due figure in scena avvertono da subito l’assenza di qualcosa a cui cercano di supplire con l’elemento contrario, l’abbondanza. È per questo motivo che vogliono fare una festa, anche se progressivamente si accorgono che festa e abbondanza non sono la soluzione. Il personaggio femminile comprende un po’ di più l’inutilità della festa, ma neanche lei riesce a trovare una risposta adeguata per riempire il vuoto che avvertono.In fondo la mancanza è una questione che abbiamo affrontato direttamente: l’assenza di uno spazio ideale per lavorare, fare le prove… l’ormai diffusa mancanza di soldi…
Dunque avete avuto condizioni di lavoro difficoltose. I tempi dilatati dello spettacolo sono stati voluti o imposti dalle circostanze?
Non avevamo uno spazio nostro dove lavorare, e fortunatamente durante le prove di In festa siamo stati aiutati da una compagnia che ci ha dato il loro luogo di prove. Certamente siamo stati condizionati dalle difficoltà pratiche, ma siamo stati capaci di sfruttare le pause tra una prova e l’altra a nostro favore, senza subire le circostanze. I tempi che intercorrono da una prova all’altra, una ogni mese e mezzo circa, ci servono per far sedimentare i punti di arrivo del lavoro, in modo tale da ritrovarci più freschi, più consapevoli di quello che abbiamo man mano creato. Questo metodo di lavoro, questa sedimentazione, ci serve soprattutto perché lavoriamo con le improvvisazioni, tramite l’accostamento di vari testi e materiali. Per fare un buon lavoro è assolutamente necessaria una grande quantità di tempo.
La difficoltà maggiore che abbiamo affrontato la conserviamo ancora nel nostro nome: volevamo che richiamasse l’idea di freddo, non metaforico ma molto concreto che ci ha accompagnato durante le prime prove a San Sepolcro, in una casa senza riscaldamenti. Quello che poi ha definito meglio la temperatura è stata l’idea che, come dice Enzensberger, la realtà a volte sta a capo all’ingiù, e come nel tuo salotto di casa il termometro generalmente segna venti gradi, se lo guardi rovesciando la testa allora diventano meno venti gradi.Ma soprattutto eravamo tutti e tre motivati da una voglia forte di lavorare, quindi andare oltre il freddo, oltre le tante spese che si devono affrontare. Sai che investi dei soldi che non recupererai mai, però lo fai perché ci tieni, perché ci credi.
Quali sono stati i vostri riferimenti mentre preparavate lo spettacolo?
Enzensberger è colui che ha guidato le nostre prime intuizioni. Un poesia che ci piace sempre citare e che abbiamo tenuto presente dall’inizio alla fine dello spettacolo è Divisione del lavoro. Un testo proprio importante, per noi.
Poi ci siamo riferiti a Ionesco. Stavamo cercando di formare un linguaggio diverso, non quotidiano, e siamo tornati a leggere i suoi testi. In particolare abbiamo scoperto che con Le sedie esistevano numerose affinità, una vera e propria coincidenza drammaturgica con il nostro progetto. Quindi ci è venuto incontro su due vie, sia per l’uso della parola (o forse abuso della parola) sia come ispirazione e confronto per la storia vera e propria. E poi tutto il teatro dell’assurdo di cui volevamo appropriarci. Abbiamo cercato di raggiungere una dimensione di teatro che fosse surreal-popolare. Dove l’assurdo perde la sua componente tragica di incomprensibilità e si apre a diversi spunti, a diversi immaginari. Abbiamo puntato al popolare mantenendo quella componente di surrealtà da cui siamo partiti.
Poi, più in generale tutti gli anni Cinquanta. Nel nostro spettacolo ci sono molti riferimenti ad autori di quegli anni. Oltre a Beckett e Ionesco, ci sono sicuramente anche Bradbury e Orwell, ma anche P. K. Dick. Orwell è però trasfigurato comicamente: il semaforo, il campanello che suona quando ti cade qualcosa… rientra tutto nell’atmosfera e nei meccanismi narrati in 1984, rivisitati però in chiave comica.
Soffermiamoci un momento sul rapporto con Martinelli, su quello che vi ha lasciato in eredità. Generalmente chi ha lavorato con il teatro delle Albe, e qui penso prima di tutto ai lavori della non-scuola ma anche ai due spettacoli degli Zoe Teatro, mantiene sempre in modo molto forte il linguaggio delle Albe. Invece nel vostro caso questo linguaggio non emerge immediatamente. Ed è interessante perché voi siete un’emanazione diretta di Salmagundi.
Per cominciare direi che siamo lontanissimi dall’aver trovato una nostra poetica. Quest’incontro tra assurdo e popolare ci sembra la cifra su cui insistere per trovare una nostra identità specifica. Nello spettacolo cercavamo questa sensazione di disagio che tutti e tre viviamo nella vita quotidiana, che sentiamo e percepiamo in tante situazioni e volevamo rendere concreta. Il linguaggio che è emerso era proprio orientato verso questa direzione.
C’è anche il fatto che siamo tre persone molto diverse, e forse proprio modi di fare così diversi hanno creato un equilibrio in maniera naturale. Adesso cerchiamo di farlo sedimentare, di gestirlo in maniera più razionale.
La cosa che forse ci è rimasta di più di Martinelli è il metodo di lavoro sulla drammaturgia. Noi non abbiamo scritto un testo che poi abbiamo messo in scena, ma la scrittura è nata in corso d’opera e da lì abbiamo tratto struttura e coesione di tutto lo spettacolo. Anche qui però ci siamo appropriati dei suoi insegnamenti affrontandoli con la nostra sensibilità, che evidentemente ci ha portato da un’altra parte. Questo, dal nostro punto di vista, ci sembra un risultato importante.
Anche per quanto riguarda la scrittura scenica abbiamo avuto un forte riscontro con Ionesco. Quando gli venne chiesto, proprio su Le sedie, di spiegare la sua opera, lui rispose: «Visto che il mondo mi è incomprensibile come posso io spiegare la mia commedia? Aspetto che qualcuno me la spieghi.» È una frase polemica, però è molto reale, noi ci ritroviamo molto. Perché quando costruisci attraverso l’improvvisazione non sempre afferri fino in fondo quello che poi vai a mettere in scena. Poi, magari dopo un anno, riusciamo a capire meglio perché un particolare si è sviluppato in una certa maniera e che significato ha raggiunto all’interno del contesto dello spettacolo.
Torniamo a parlare del concetto di mancanza: nelle vostre vite di artisti, di gente di teatro, la mancanza qual è? Che cosa volete e che cosa cercate?
Prima di tutto la mancanza di spazi e il problema economico, questioni che abbiamo affrontato direttamente. Ma queste sono cose dette e ridette. La mancanza è un punto che abbiamo cercato di indagare ma che non ci è mi stato chiaro. Proprio una delle frasi con cui cerchiamo di presentare lo spettacolo è «Manca qualcosa.» Che cosa manca non si sa, ma la consapevolezza di questo è già un punto di partenza. Forse proprio l’inizio dello spettacolo è significativo. Pensavamo che lavorando sull’argomento ci si sarebbero schiarite le idee. Ma non è successo.
C’è poi un messaggio sotteso a tutto questo discorso, cioè «Attenti, che non vi manca nulla.», nel senso che tutti abbiamo dei momenti di vuoto, a tutti manca qualcosa, ma adesso non possiamo metterci a fare l’elenco di quello che non abbiamo. È un dato di fatto condiviso. Bisogna formarsi una certa consapevolezza al riguardo.
E il teatro è una risposta a questa condizione?
Forse la strada del popolare potrebbe portare a una risposta, in questo senso, o forse il teatro dovrebbe essere una risposta sempre e comunque. Il teatro di per sé porta a fare delle esperienza di comunità ristretta, di un rapporto che va oltre la condivisione immediata. Il pubblico è il nodo fondamentale della questione. Per noi lo spettatore è importantissimo, e se a volte ci sono degli spettacoli in cui la comunione con il pubblico non avviene sappiamo che sono scelte. L’importante rimane saper mantenere la propria identità.
Ma forse il teatro si sta chiudendo un po’ troppo su se stesso e il fatto che non ci sia movimento attorno al teatro potrebbe essere direttamente colpa nostra. Noi cercavamo questo surreal-popolare anche come chiave di apertura, quindi un linguaggio che conservi sì una sua identità indipendente, ma senza chiudersi troppo al pubblico. E invece purtroppo il teatro lo fa. E la colpa, forse, è proprio degli artisti.