La scrittura distaccata e tragica di Agota Kristof, difficile da masticare per quant'è cruda, trova nel segno coreografico di Luca Nava – compagnia Le-gami – la sua più alta espressione. La grammatica del gesto si trova in perfetta consonanza con una prosa innaturale per secchezza, la cui costruzione narrativa risulta quasi agghiacciante.
È una favola nera quella di Le-gami, raccontata già nel modo più essenziale dalla scrittura limpida e asciutta della Kristof e che nella sua messa in scena non lascia spazio a divagazioni. I due gemelli del romanzo, Lucas e Klaus, indivisibili e interscambiabili, sono intrepretati in scena da Andrea Del Bianco e Francesca Burzacchini, per caso o destino uniti nell'essere coetanei e marchigiani entrambi. Di continuo la scrittura coreografica affonda la lama nella differenza tra individualità ed equivalenza, tra identità e diversità. La relazione tra i due, pare negata inizialmente, in una solitudine di gesti slegati e svincolati (apparentemente) da regole coreografiche. E invece il gioco si fa interessante proprio quando si innesta la riflessione sulla relazione, possibile solo tra diversità, e sull'identità come negazione della diversità. Attraverso le maglie di un audio che cresce in intensità nel tempo, i due si trovano nel conciliante unisono finale che ci fa tirare il fiato dopo un'apnea lunga mezz'ora, ed è proprio ora che la consonanza totale rivela il suo lato crudele, svelando il distacco più che l'adesione tra i due.
Differenza sostanziale tra La trilogia della città di K e SP.3 risiede nell'identificazione del dove e del quando. Se nel romanzo, siamo in un dopoguerra indefinito dove i contorni del luogo perdono precisione, in SP.3 le indicazioni di spazio e tempo sono ben delineate dai danzatori. Se lo spazio è il luogo dove loro stanno e il tempo è ciò che fornisce la durata, questi elementi determinano l'esistenza di quell'atto irreplicabile che è lo spettacolo.
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