RECENSIONI > Namoro o dell'indicibile fenomenologia dell'innamoramento
Immaginate per un attimo di descrivere il luogo zero dell'innamoramento, immaginate di trattenere quell'attimo eternamente inafferrabile. Immaginate la voglia per l'amato intrappolata nella volontà dell'amante. E provate ad arrestarlo.
Come raccontare la dinamica di un sogno: semplicemente infattibile.
Quello di Gruppo Nanou è infatti uno spettacolo di immagini impossibilitate a descrivere, intrappolate sul tempo di un metronomo inarrestabile e in azioni che negano l'atto stesso.
Così Namoro è tutto questo e il suo contrario: una fenomenologia dell'innamoramento costruita sull'idea che si tratti di una condizione sempre solo avvicinabile senza soluzione di continuità che ne definisca i contorni e consenta di coglierla davvero, sezionarla e quindi descriverla. Non più conoscenza, non ancora amore: il punto più misterioso è questo. È esattamente questo. Siamo nella voluttà infantile dell'innamorato... nella voce che giunge straniata a ipnotizzarlo.
L'innamorato non guarda, è una sagoma a lato, sovrastata dall'ombra di lei.
Lei ha il movimento; lui la voce. E fin dall'inizio si ha l'impressione che la prima domini e manovri l'ipnosi che lo coglie paralizzandolo. Oppure si tratta di un confondimento apparente del soggetto che ama, che si fa escludere dall'oggetto amoroso prima che vi sia la fusione e allo stesso tempo lo include, le dà la forma dei propri pensieri, la sostanza della sua voce, governa la trance. O forse i due sono semplicemente uno dell'altro, costretti a rincorrersi per stabilirsi, obbligati a esprimersi per percepirsi.
Ma voce e corpo sono ugualmente precari e difettosi ed è proprio questa la condizione e al contempo il limite dell'ineffabilità di Namoro: l'insufficienza di ogni sua descrizione è il senso dell'indeterminatezza della circostanza stessa. Così l'uno si rovescia nell'altro per riempire i propri vuoti e se lei (Rhuena Bracci) esibisce come in fermo immagine le menomazioni del suo fisicismo e ci appare incatenata senza l'uso delle braccia o claudicante e in equilibrio perennemente instabile; la vocalità a tratti inudibile di lui (Marco Valerio Amico) nasconde la sua fonte, occulta il volto, la bocca e gli occhi anche se per mostrarci ciò che vede o che sogna o desidera. E il testo, quando arriva, svela il proprio irrimediabile cedere alla prevaricazione del linguaggio. Che sia l'etereo Barthes, il sanguigno Genet o il romantico Shakespeare fa poca differenza e non deve farne: perché l'amante non conosce le parole, la pronuncia è frammentata, il senso discontinuo, la descrizione continuamente rinviata e l'incontro rimandato. Perché i passi che udiamo avvicinarsi o le porte aprirsi ci fanno solo immaginare corpi che si uniscono: l'immaginazione contrasta con ciò che c'è di fronte, sulla scena, in realtà. Esattamente come nell'innamoramento, sospeso sulla soglia che distacca per un attimo da terra prima di precipitarci ancora più pesanti, che ci obbliga a guardarci, che ci insegue come un riflettore su noi stessi senza lasciar scampo.
E che il bersaglio devii interminabilmente dal mirino, lo rivela lo stesso work in progress di Gruppo Nanou, che da circa un anno lavora a questo progetto, giunto alla sua quarta esposizione pubblica in conclusione della residenza ad Alfonsine e ancora in cerca di nuove forme.
Perché l'esposizione è la ricerca stessa, estenuante, faticosa, sfuggente di Namoro: l'attesa della sua manifestazione, l'attimo fulmineo, lo scarto e poi riprendere daccapo la fuga e l'inseguimento. Il percorso non è tracciato e non può esserlo, il punto di partenza e di arresto sono in realtà solo nella mente di chi guarda, come per il racconto della dinamica di un sogno: chi ascolta deve saper immaginare. Così, di qualsiasi 'namoro' si tratti, finiamo per preferire più i momenti in cui l'alfabeto corporeo o le suggestioni sonore ci offrono altre strade che quelli in cui il linguaggio ci forza in una via.
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