La forza del corpo risiede nella sua possibilità di esprimersi malgrado tutto, la sua debolezza invece, malattia del nostro oggi, si annida nella volontà di renderlo tempio assoluto dell'eternità. Pare ormai legittimato e scontato intervenire sul corpo fino a cambiarne la storia iscritta sulla pelle.
La coreografia ha delle responsabilità a riguardo.
Rintracciare nel segno e nella grammatica del gesto la rivoluzione che questo mondo chiede, è suo compito primario. La Biennale Danza, sotto la direzione di Ismael Ivo, ci aveva promesso sin dal titolo di andare under the skin, rimandendo invece vincolata alla superfice delle immagini che i gesti creavano nello spazio sapientemente valorizzato dal gioco di luci. Dal mondo della danza provengono poche riflessioni precise sulla precarietà del corpo, sul suo essere indifeso ed esposto, sulle violenze che gli stanno infliggendo, questo perché l'aspetto peculiare della creazione di danza legittima senza paura la possibilità all'astrazione, creando la capacità di richiamare alla memoria, di evocare non solo le possibilità del corpo in movimento, ma le possibilità dell'immaginario, allontanandosi in tal modo da quel reale attuale che lo rende presenza politica in scena. L'eredità della drammaturgia nel teatro applica al gesto e al corpo (sradicandolo, ridicolizzando, sovvertendolo) una riflessione che dal senso si espande sformandosi fino ad approdare, solo in un secondo momento, al corpo.
Lavori in pelle ci offre una vetrina capace di monitorare realtà dal sottosuolo, La bambola vera di Paola Chiama, pare muoversi nella direzione più in adesione alla attuale riflessione sul corpo trasparente: contenitore fragile di personalità inconsistenti. E allora la danzatrice dal corpo bianco chiuso in una teca, si mimetizza fino a sparire nello sfondo, accogliendo un esterno fatto di immagini volutamente banali, violente, sessuofobe, fashion.