IL BLU DEI NANOU
Al centro di Mulholland Drive di David Lynch c'è una scatola blu. Le due protagoniste inseriscono una chiavetta, e il film cambia connotati. Verso la prima metà di Inland Empire, la telecamera sosta su una lampadina che si colora repentina di blu. Inizia così il viaggio di Laura Dern, la protagonista, nelle Wonderland della pellicola e della realtà. In Twin Peaks, invece, il lato oscuro della realtà si cela dietro a eventi quotidiani, dettagli in apparenza trasparenti, in cui forse il blu è un colore sottotraccia che mai si palesa eppure vira l'ambiente. Con un salto linguistico che corrisponde all'operazione del Gruppo Nanou, potremmo domandarci che valore abbia la scatola blu di Tracce verso il nulla. Si tratta di corpi che sperimentano conformazioni non antropomorfe o animali, come si propone la compagnia di Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura. Assistiamo a capovolte, passeggiate sulle mani, inarcamenti della schiena come di figure umane costrette ad appoggi ribaltati e quadrupedi. Ascoltiamo gridolini mefitici, sillabazioni scomposte, urla spasmodiche. Sembra dunque che la scatola blu sia un mondo retto da leggi proprie, con dentro figure e alfabeti, gli stessi che vediamo in scena indagati dai Nanou. Attendiamo dunque gli esiti finali dello studio, per capire se nella scatola potremo entrare definitivamente anche noi, dopo averla avvicinata qui a Lavori in Pelle. E anche per scoprire se le tracce porteranno al nulla o all'assassino di Laura Palmer.
(L.D.)
VERSO IL NULLA. UNA STRADA PERDUTA O UN NUOVO IMPERO DELLA MENTE?
Siamo all'inseguimento di una storia, di un evento che non smette di accadere. E non sappiamo di che cosa si tratta. Esattamente come di fronte a un film di David Lynch, quelle che vediamo sono solo tracce, evidenti e a portata di mano, ma il filo che le collega è invisibile, da trovare con pazienza e astuzia durante la visione.
Tracce verso il nulla è, sulla scena, la parafrasi del suo stesso titolo: Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci sono i due protagonisti di una tensione palpabile ma inconoscibile, personaggi che con i loro corpi diventano segno dell'irrequietezza, della paranoia, dell'ossessione. In questo stato di ingovernabile inquietudine, i due danzatori segnano strade sul bianco pavimento della sala, strade che non hanno inizio né fine, in un territorio diviso tra lui, che costruisce perimetri continuamente variabili, e lei, persa in un trasparente labirinto spigoloso, dentro il quale rimbalza senza possibilità di uscirne.
Il nostro sguardo non ha appoggio, e si ritrova ogni volta in cerca di qualcosa, orientato dai corpi e dai passi verso un irrimediabile vuoto. Buio, illuminato appena da una torcia che gira inarrestabile o bloccato da algidi neon fissi sul soffitto.
Uno studio che ha già un andamento preciso, che sceglie di procedere per brevi immagini, singoli fotogrammi legati solo dal movimento serrato dei danzatori sulla scena: le loro corse, gli incontri e gli interminabili sguardi. Ma in questo gioco a interrompere, si determina un'irrevocabile impossibilità al racconto e alla creazione: nella rapida carrellata di microsequenze a cui assistiamo l'attenzione si proietta sui dettagli, sulle espressioni del viso, sulla scatola blu e su una piccola sfera al centro della scena che viene rubata all'improvviso. L'imminenza dell'evento sconosciuto perde d'importanza ma continua a esistere, forzando la curiosità dello spettatore, smentendo le sue aspettative senza una giustificazione reale.
Ogni particolare allora vive per sé, non si ricollega al quadro e il quadro, nella sua indefinitezza, rimane senza cornice. Neanche le frasi che Marco lancia nel silenzio con voce profonda servono a ricostruire il disegno, creando solo nuove ombre di cui non si conosce l'oggetto e rivendicando ancora una volta un'impossibilità a concludere, a trovare un punto nel vortice dei fotogrammi visibili.
(S.T.)
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