Ma come ho appena detto, quando le immagini provenienti dalla superficie di un uomo e di un cavallo per caso si incontrano, esse possono facilmente fondersi a causa della delicatezza e della sottigliezza della loro tessitura. Lo stesso avviene anche per le altre creature dello stesso genere.
Così Epicuro nella Lettera ad Erodoto descriveva il formarsi nell’occhio umano dell’immagine biforme del Centauro, animale mitico metà uomo e metà cavallo generato dall’unione di Issione e la nube Nefele, mutata da Zeus, per inganno, in Era, della quale il re dei Lepidi s’era invaghito. Le parole del filosofo di Samo ben s’intonano a Doma, penultima creazione della danzatrice forlivese Sonia Brunelli.
Nella rarefatta atmosfera d’una luce crepuscolare che è sempre lì dal divenire alba o tramonto, si staglia un torso con testa, fatto di spalle e di nuca dal respiro carnoso, sospeso tra capo e addome, avvinghiati di color baio. Un corpo a pezzi, ma, si badi, non ancora pezzi di corpo, che disorienta il primo sguardo. Figure che s’assottigliano, s’annebbiano in un’impercettibile “tessitura” di “codici di condotta” ghermiti al cavallo. Immagini d’una “sottigliezza” impercettibile, difficili da focalizzare. Doma, infatti, non sbalordisce, né entusiasma, ma sbalestra la vista, perché la disarma dalla forma. Allora la concentrazione necessaria è interamente muscolare, affinché, dissolta ogni forma, ci si abbandoni a un crepitio di stimoli nervosi. Vedere è qui un “fatto prima di tutto nervoso”. La danzatrice non comunica con gli spettatori, ma s’accomuna sotto il segno dei nervi. E forse la spessa fune appoggiata sulla pedana, che intesse con la figura una maglia larga di sintonie mai scontate, potrebbe alludere proprio al nervo, questo tessuto filamentoso, che, intrecciato e teso, è il cavo di trasmissione del movimento. Tale è infatti l’aderenza mentale del gesto della Brunelli: immediatezza d’uno scatto oculare. In questo scoppiettare di nervi d’occhi e di corpo la coincidenza dell’uomo col cavallo è come una svista, una mutazione equivoca, dovuta alla grana troppo tenera delle figure. L’essere biforme del Centauro appartiene oramai ai nostri occhi, così come ai nervi di Doma.
Di chi è dunque questo gesto? Né dell’uomo né del cavallo, ma di una figura completamente reinventata da quest’innesto, tale che non si potrà mai veramente distinguere un gesto equino in corpo umano. La Brunelli insomma inventa qui le sue figure scansandone le forme, per calzarne le forze. Così potrebbe essere quando, a un certo punto della composizione, la danzatrice addenta la calzamaglia e la tira. Scansa il cavallo, di cui indossa oramai la nervatura. Non c’è alcuna violenza in questo gesto, ma la coscienza fredda e calcolata di chi piazza un indizio per essere scoperto. Dunque il cavallo nel sonoro della stalla, nel corpetto, nelle calze, nel casco da cavallerizza, non è un’evocazione, né una citazione, ma un innesto.
Altro pungolo è infatti il suolo, trattato come supporto. Sembra quasi lapalissiano, ma del cavallo alla Brunelli interessa la doma. L’ammaestramento dell’animale condotto per mezzo d’una serie di ferree esercitazioni di disciplinamento alla terra, perché qui s’annida l’indiscernibilità tra l’uomo e l’animale. L’andatura, bipede o quadrupede, dice di quest’educazione d’appartenenza al suolo. I colpi, gli sfregamenti, le capovolte, i rimbalzi, sono le andature di Doma. Il dramma, cioè l’azione, è qui l’esecuzione di un cifrario di pose vincolate dal suolo. Le figure sono obbligate dal supporto.
Stessa condizione in Umo, secondo lavoro della Brunelli – dopo l’esordio di Encefalo –, dove tale rapporto risulta con maggiore evidenza. L’assolo s’avvia infatti con colpi vigorosi sul dorso corvino del terreno, come a dichiarare immediatamente il nocciolo generativo del movimento. Anche qui infatti le figure provengono dal suolo nero, in un’aderenza talmente stretta e specifica che riaffiora alla mente il procedimento di decorazione delle ceramiche a figure rosse, diffusosi nel VI sec. a.C. in Grecia. Una tecnica che consisteva nel ricoprire la terracotta con una velatura di vernice nera, tale da risparmiare le figure, poi ridefinite con sottilissimi pennelli. Il confronto con Umo, e in generale con le composizioni della Brunelli, s’istituisce per diversi motivi.
Innanzitutto perché in entrambi i casi le figure nascono per effetto di copertura e appartengono alla materia nuda del supporto. Così, se nel vasellame antico esse risultavano del colore della terracotta, in Umo è la natura del suolo a dare colore alla figura. La schiena, le gambe e le braccia della danzatrice forlivese, risparmiate dal nero della velatura, sono l’unico residuo visibile del supporto coperto. Non sono né disegno, né colore, ma supporto risparmiato. La figura traduce la nudità del suolo, tale che il gesto della Brunelli potrebbe essere definito ginnico in senso strettamente etimologico (dal greco gymnós, nudo).
In secondo luogo, è chiaro che, come nel vasellame antico, anche in Umo, è ancora il supporto a costituire lo spazio entro il quale s’organizzano le forme, e seppure esse abbiano già una prepotente plasticità, non esiste alcuna spazialità prospettica. Le figure di terracotta, come quelle di Umo, hanno infatti una dimensionalità piatta e frontale. La volumetria del corpo abita uno spazio che è quello dell’oggetto a cui appartiene. Un oggetto con cui sia le figure rosse, che quelle di Umo, istituiscono un rapporto di misurazione tattile. Qui infatti non si tratta ancora d’una questione prospettica, d’uno spazio mentale in cui collocare le figure, ma, invece, di una superficie tangibile da cui la figura emerge, perché si posa. L’occhio è fatto tatto. Lo spazio del supporto consta, alla fine, dei contorni delle figure. Si ha l’effetto d’una spazialità aperta, in cui esse sono saldamente ancorate a un orizzonte nero che appiattisce tutte le traiettorie.
Umo è pure l’assolo più intricato di oggetti: calze, un cerchio, acqua. E l’unico in cui compaia una figura riconoscibile, appartenente alla tradizione iconografia cristiana. È la Santa Cecilia di Stefano Maderno. Si tratta ancora d’addossarsi una condizione, che però è qui meramente figurale. Alla Brunelli non interessa la storia della martire cristiana, ma la sua figura, o meglio ancora, la sua posizione. La scultura maderniana, esatta riproduzione della posa che la santa aveva assunto dopo il triplice colpo al quale era sopravvissuta in quello stato per tre giorni, è tutt’uno col suolo. Lo scultore la scolpisce su una base dello stesso marmo e la colloca in una nicchia di marmo nero del Belgio, dove spicca, anche oggi, come un’apparizione, ancorata al supporto e veramente incorrotta dal tempo. La scultura del Maderno traduce l’eccezionale riaffiorare d’una figura del suolo. Essa non ha bisogno d’attributi di santità, le basta la sua posizione su quella base. Così come in Umo, dove la Brunelli ancora compone costipando le figure d’oggetti, ma che scansa, il cerchio, e sfila, i calzettoni, nel tentativo di lavarne, alla fine, nell’acqua ogni traccia.
Marco Villari
COMPAGNIE