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Ligabue fra storia, biografia e teatro. A proposito di Bassa continua di Mario Perrotta hello
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Inizio, quasi un finale
Una sera nella piazza di Gualtieri. Ci si sposta per chilometri in una pianura che si estende a perdita d'occhio, si attraversano ordinati agglomerati industriali e file regolari di pioppi. Non si vede sempre, eppure il Po è una presenza costante, basta fare caso agli argini che punteggiano le strade, ai ponti, agli inaspettati “boschi” che segnalano l'inizio delle golene. È una sera di fine maggio nella piazza di Gualtieri, nel punto centrale dove si guardano la torre dell'orologio e il palazzo signorile. Arriviamo e ci accorgiamo di tre cortei che stanno confluendo al centro dai lati e si uniranno in una sola processione. Sale una melodia funebre, una banda apre il corteo, subito dietro alcuni uomini portano una bara. In alto, sopra il feretro, vediamo Toni. Tacciono trombe e grancasse, ora è lui a parlare. Attorno siamo in oltre trecento, lo guardiamo, lui ci parla, ci saluta e ci indica. Dobbiamo vergognarci, afferma, ci fa notare che non meritiamo di essere al suo cospetto durante il funerale. Spiega che qualcuno ha rubato i suoi quadri, altri lo hanno respinto quando aveva bisogno, altri ancora non hanno creduto al suo valore e adesso versano lacrime finte, rappresentate. «Vergognati!», ci dice. E pensare che a lui sarebbe bastato pochissimo, forse solo «un bès». E lo ripete più e più volte, fino quando la sua voce diventa grido.


ph Luigi Burroni


Bassa Continua di Mario Perrotta ricorda certe forme del teatro popolare sudamericano. È uno spettacolo che mescola recitazione, ballo e canto in cerca di risonanze con spettatori di provenienze diverse. Torneremo su tale parallelismo, per ora ci limitiamo a sottolineare come Bassa Continua sia l'esito produttivamente colossale di anni di inchieste sul luogo, interviste, incontri e di due spettacoli che precedono questo appuntamento: Un bés del 2013 (un assolo, Premio Ubu come miglior attore a Perrotta) e Pitùr (2014). Bassa Continua è stato realizzato tra il 21 e il 24 maggio 2015, composto di tre spettacoli allestiti in contemporanea in tre diversi luoghi: il manicomio di Reggio Emilia, il centro di Guastalla e il teatro di Gualtieri, infine le golene del Po a Gualtieri. Si iniziava in paesi e città differenti, si vedevano tre diverse messe in scena sulla vita di Antonio Ligabue, il pittore di Gualtieri, soprannominato el mat, el pitùr. Mario Perrotta, anima e guida dell'intero progetto, ha coinvolto numerosi altri artisti che l'hanno affiancato nella ricerca e nella messa a punto finale, affidando la regia dei tre “pezzi” a tre differenti sguardi e scrivendo i testi insieme a Nicola Bonazzi. Sono stati coinvolti quasi 200 tra attori, danzatori (coreografie di Mario Coccetti) e musicisti (progetto musicale a cura di Vanni Crociani) con l'idea che ogni singolo frammento potesse fare parte di un unico grande movimento spettacolare sulla vita di Ligabue. Di giorno, uno “spettacolo espanso” presentava frammenti, opere prime, installazioni, testimonianze sempre ispirate alla vita dell'artista.
Arriviamo a Gualtieri, ci spostiamo a Guastalla, vieniamo condotti a Reggio Emilia su autobus che mandano video documentari su Ligabue o sui quali udiamo rimbombi e tonfi come se stessimo fuggendo dalla guerra, come è capitato a Ligabue. Succede dunque che i personaggi si materializzino di fronte a noi spettatori e che le biografie prendano vita nei luoghi in cui realmente accaddero, in una cifra “verista” che diviene immediatamente credibile grazie alla letteralità dell'ambientazione. Perrotta inventa una forma che riesce a fare tesoro di generi letterari come la biografia, il saggio critico, il memoir; sfida i linguaggi, mescolandoli con coraggio per mantenere aperte numerose possibilità di accesso. (Lorenzo Donati)


ph Luigi Burroni

Percorso città
Tutti in piazza, in attesa. Suona uno strumento, poi un altro, il sole si abbassa e le luci si alzano. Dal fondo una figura arriva verso di noi barcollando, la valigia in mano e la testa ripiegata sul petto. È Lorenzo Ansaloni nei panni di Antonio Ligabue, il Toni, l'artista al centro del nostro viaggio di spettatori. Compaiono altri personaggi, donne e uomini prima mischiati alla nostra stessa folla e poi radunati in piazza come uno sciame di insetti pronti a invischiare il cammino di Ligabue: quasi lo torturano inciampandogli addosso, ronzando attorno alla sua traiettoria costringendolo a spostarsi da un punto all'altro del breve arco della piazza di Guastalla. Sono figure di un'altra epoca, indossano vestiti dal taglio ani '30 e portano con loro una valigia. Ognuno l'appoggia, la sposta, la muove, la vortica in aria in una coreografia secca e ritmata, mentre il Toni si confonde, sgrana gli occhi e cambia strada, ritrovandosi ora carico di tutte le valigie, ora privo della propria al centro di un cerchio di monelli che glie la nascondono. Il percorso Città diretto da Alessandro Migliucci ci porta nello spaesamento di Ligabue in arrivo dalla Svizzera: stordito, carico, timoroso eppure con gli occhi aperti per osservare e farsi vedere, in balìa, sin dal primo istante, di un luogo sconosciuto e dei suoi abitanti.


ph Luigi Burroni

Ci spostiamo nella corte del palazzo adiacente la piazza. Qui si alzano i suoni, un timpano rimbomba i colpi e, mentre i personaggi di prima riprendono una nuova danza, il Toni si aggira attorno al quadrato del pubblico, scrutando come noi la scena festosa, per poi scappare da una loggia gridando «fascisti!». In un attimo saliamo su autobus, mentre alcuni personaggi ci accompagnano intimandoci a mantenere la calma. Per i dieci minuti del percorso siamo dentro la rappresentazione della guerra, e a volume altissimo sentiamo rumore di spari, di motori, di bombe. Una volta arrivati a Gualtieri il Toni ci aspetta in una stanza, seduto e sudato, già stanco, e ci racconta un pezzo della sua storia. Il monologo di Ansaloni è un baluginare di ricordi, la madre che lo affida a un'altra famiglia, la nuova madre che ha paura di lui e lo carica su un treno, un distacco dal quale non è possibile tornare indietro. Ma anche a Gualtieri, come in Svizzera, la vita non funziona del tutto. Prima erano due madri a non sapergli stare accanto, ora è un intero paese a guardarlo di traverso fino all'ultimo stadio di un'adozione obbligatoria: Antonio Ligabue, il Toni, lo straniero, il folle. La vita di Toni è un continuo slittamento, sembra dirci questo pezzo di lavoro, tra il dentro e il fuori di un miraggio: una relazione semplice, fatta di corrispondenze dove si possa stare tutti allo stesso livello. Ma è lo stesso Ligabue a farsi fuori, a sentirsi altro da chi ha di fronte, e gestisce la sua diversità con l'imbarazzo di un bambino non cresciuto e l'arroganza di un artista consapevole del suo genio. Tutto ciò è nella scrittura teatrale e nel corpo di Ansaloni, che muove lo sguardo sulla folla del pubblico, talvolta alzando un dito per indicare qualcuno, qualcosa, un punto d'attracco che lo salvi dalla disperazione di una vita.


ph Luigi Burroni

A conclusione di questo tragitto entriamo nel Teatro Sociale di Gualtieri, che è stato il cinema nel quale il Toni stesso si avventurava per vedere e rivedere i film dei suoi anni. Prima c'è l'avanspettacolo, dove tre signore scollate cantano stornelli romaneschi per far ridere il pubblico e invogliarlo al godimento a forza di volgarità e doppi sensi. Quando Ansaloni entra da un lato del teatro, il personaggio si mostra in una nuova ambiguità: da una parte il desiderio di guardare e dall'altra la vergogna, e il gioco al respingimento che si innesca tra Paola Roscioli (che qui interpreta la cantante-attrice protagonista del teatrino) e Ansaloni amplifica la questione. Dopo l'avanspettacolo si proietta il film: è Tarzan. Il Toni da un palchetto recita le singole battute dell'eroe della giungla pochi secondi prima della pellicola, anticipandole a memoria mentre il pubblico di attori in sala lo intima al silenzio. Poi la proiezione di un bacio in bianco e nero, e la luce in sala cala fino al buio mentre Toni grida la sua consueta preghiera: «Un bés!» (Serena Terranova)


Percorso manicomio
Dalla follia non si sfugge, nemmeno se questa è fusa con una certa genialità. Andrea Paolucci dirige i tanti attori che rimettono in vita le stanze del manicomio di Reggio Emilia, situato lontano dal centro e in mezzo a grandi prati. Arriviamo camminando, e l'immagine a cui andiamo incontro si fa sempre più precisa finché scorgiamo alcuni personaggi vestiti di bianco che si muovono lungo il cortile antistante il manicomio. Quando siamo in mezzo a loro possiamo sentire le voci che parlano e sussurrano frasi sconnesse, con picchi di volume e gemiti strazianti che escono dalle loro gole di ragazze e ragazzi. Poi entriamo nello stabile e il folto pubblico si raduna in una a stretta fila che si biforca, chi a destra e chi a sinistra. È il manicomio uno dei luoghi della separazione? Lo è stato certamente, e anche noi ora siamo invisibili al mondo, sempre più rimossi e soli: dopo una prima seduta con uno psichiatra che ci presenta il “caso” di Antonio Ligabue, raccontandoci delle ferite autoinferte al naso «per renderlo simile al becco di un'acquila, animale di cui talvolta imita anche il verso» e della sua ossessione per la vita nel bosco dove dipinge mischiando colori estratti dalla terra ai propri liquidi corporei, dopo questa sorta di “lezione” sull'ineluttabilità della stranezza malata di Antonio Ligabue siamo inglobati in un lungo corridoio, ulteriormente separati in piccoli gruppi e, infine, spinti dentro delle piccole celle.


ph Luigi Burroni

Ogni gruppetto di spettatori incontra un attore alle prese con la propria evocazione del Toni, in una saletta con strumenti di tortura (ai tempi gli psichiatri avrebbero detto “di cura”). Il viso dell'attore di fronte a noi è stravolto di follia, il suo discorso veloce, rapido, fugace, in cerca di risposte a domande che gli affiorano alla mente. Tra tutte, l'ossessione dei medici per il suo ostinato autoritrarsi, il suo «Mi stacco la faccia e la metto sulla tela». Ma la questione è semplice, sembra dirci questo brano mentre l'attore racconta: «L'ho visto nella mia testa, io non sono qui, quello completo è di là». Il vero Toni è quello nei ritratti, è quello pieno di colori e luci solari, è il Toni nei paesaggi, con gli occhi aperti e lo sguardo rivolto a chiunque gli stia di fronte. Per questo l'altro Toni non smette di raffigurarlo: per farlo vivere in mezzo agli altri. E forse anche perchè gli altri possano vederlo per quello che è.
Dopo la prima parte del percorso Manicomio, in reclusione, siamo quasi liberi: ci raduniamo – anche con gli spettatori che avevamo perso di vista – nel cortile interno sul retro del manicomio. Qui una nuova danza, questa volta marcatamente didascalica, spezza la poesia e quel senso di verità che eravamo riusciti a toccare tramite il teatro. I ballerini ci immettono in un paesaggio che esalta la bruttura della condizione del manicomio, tra raptus, fughe e cerchi di solidarietà. Le coreografie di Mario Coccetti in questo caso e si giustappongono a un pezzo di teatro che, nella sua linearità, ci aveva condotti dentro uno stato. (S.T.)

Percorso fiume
Si arriva all'imbocco di una stradina che costeggia le ordinate file dei pioppi. Una natura fluente e allo stesso tempo domestica, domata dall'uomo eppure esposta a sommovimenti impossibili da disinnescare, come le catastofiche piene del fiume. Camminiamo, noi spettatori, seguendo il tracciato di una stradina sterrata in un percorso orchestrato registicamente da Donatella Allegri. L'artificio d'un tratto si palesa in cavi elettrici inerpicati sui tronchi, in proiettori di luci che rischiarano l'oscurità del tramonto. Nella radura del pioppeto compare una schiera di danzatori, sorta di metaforica incarnazione dei “colori”, degli spiriti che agitano la mente di Toni, chiamandolo a dipingere, tormentandolo ma anche “liberandolo”, spingendolo all'azione. «Guarda i miei animali, le mie bestie, che colori!», dice Ligabue (qui interpretato da Marco Cavalcoli) facendo all'improvviso capolino. I danzatori indossano casacche sporche di pigmenti, seguono linee espressive marcatamente emotive. Passiamo oltre. Una pista da ballo ci attende sotto agli alberi. Ci troviamo ragazzi e ragazze: balli di coppia, ammiccamenti e sguardi complici, la sensazione che tutto sia possibile, l'avvenire gravido di possibilità. Conduce le danze la “sboldrona”; si rivolge a noi, ci racconta delle sue ragazze, la “tordina” e la “spedita”, cerca Toni che compare da dietro un tronco osservando di soppiatto. Lei racconta di averci provato, a stare col Toni, sentendosi forse per la prima volta rifiutata. Una convincente Micaela Casalboni racconta e schiamazza ricordando certe matrone felliniane, facendo le veci di un intero universo femminile che ha sempre additato il pittore isolandolo, fuggendolo e canzonandolo senza mai davvero comprendere che cosa cercasse dalle donne, a partire dalle madri/matrigne amate e odiate.


ph Luigi Burroni

Ancora ci spostiamo, questa volta sulla riva dell'argine maestro del Po. Un tribuna dietro alle frasche ci accoglie, le lucciole punteggiano l'oscurità, il pittore è in piedi sopra una malferma zattera nell'acqua. Lo possiamo udire e scorgere da lontano, lo osserviamo rifratto nello specchio creato dal fiume, oppure “raddoppiato” e trasformato nell'ombra che il suo corpo proietta sugli alberi in lontananza... Parla fra sé e sé, ci permette di intuire il suo isolamento, il suo vagare fra cascine e golene, accusato da compaesani zelanti di mangiare animali e gatti, quando invece le sue opere e la sua biografia dimostrano un amore, un riconoscere negli animali quasi dei compagni di sventura, come lui vittime dell'uomo. La “erre” impastata di tedesco, italiano ed emiliano marca una lingua sporca, da straniero, sostenendo comunque l'idea fissa con cui sembrano terminare tutte le frasi del pittore: «Me mi basterebbe una donna». E qui Marco Cavalcoli, così come Ansaloni e lo stesso Perrotta avevano fatto in modi diversi, riesce nell'intento forse più difficile, riportando un frammento di finzione nel qui ed ora della rappresentazione: la biografia diventa drammaturgia, e questa si trasforma in “vita” grazie al lavoro d'attore, alla sua capacità di essere credibile stando su quella soglia sottilissima che separa la persona dal personaggio. Quello di Cavalcoli è forse il Toni più burbero e inafferrabile, diventando a tratti non intellegibile nel biascicare della voce; è il Toni in apparenza più distante dall'immaginario del pazzo, e anche per questo resta così impresso. Specchiandosi nelle acque, come Antonio Ligabue si specchiava nei suoi autoritratti, l'immagine del pittore qui svanisce per troppa esposizione, una riproduzione e rappresentazione del sé che si spezzetta in rivoli, sovrapposizioni, diffrazioni, ripetizioni, proprio come nei quadri. (L.D.)


ph Luigi Burroni

Fine, quasi un inizio
Con ancora nelle mente le visioni che abbiamo provato a descrivere, torniamo al centro di quella piazza. Vogliamo sentirci parte della folla che lo omaggia, per un attimo vorremo credere davvero di essere al suo funerale, di potere vivere quel momento. Arriva la banda, vediamo i gruppi di spettatori provenire da tre diversi angoli del paese, sappiamo di averne fatto parte anche noi. Ora la marcia funebre ci stringe un nodo alla gola. Bassa Continua fa pensare, dicevamo, a un certo teatro sudamericano. Vengono in mente le forme di teatro comunitario argentino proliferate dopo la crisi economica del 2001, con qualche esempio rintracciabile anche da noi in Italia: vicini di casa e abitanti dello stesso quartiere che raccontano e si raccontano, diffondendo memorie e storie. Il teatro sta al loro fianco, nel tentativo di coniugare lo spirito dell'inchiesta e la trasfigurazione dell'arte. Assorbe come una spugna e si rivolge a spettatori che, proprio grazie a questo meccanismo, non possono che essere partecipanti anche quando scelgono semplicemente di assistere. Bassa Continua fa pensare anche certe origini del “nuovo teatro” italiano, quando si pensava che la scena potesse raccogliere desideri, paure, problemi delle persone con le quali lavorare, “scrivendo sulle comunità”, raccogliendo le storie delle persone a cui si rivolgeva, rielaborandole, tradendole ma in ogni caso specchiandole, interrogandole. Infine Bassa Continua si muove insieme ad alcune delle punte più avanzate della ricerca contemporanea (dai Rimini Protokoll al lavoro di Claudio Longhi, per fare solo due nomi in un elenco di importanti esperienze), nella tensione a spostare il proprio oggetto di indagine “nella società”, considerando la società e le sue storie come una “fonte drammaturgica” e così provando a ricucire la frattura che per tante ragioni ha spezzato i legami fra arti sceniche e la maggioranza della popolazione.


ph Luigi Burroni


ph Luigi Burroni

Così lasciamo Gualtieri, convinti non solo di aver incontrato un teatro vivo, in aperta ricerca e forte nel proporre delle forme in grado di far muovere il pubblico da un punto all'altro della biografia di un artista complesso come Antonio Ligabue, ma convinti anche di aver assistito a una sorta di grande evocazione di una delle anime identitarie di un luogo. L'insieme delle visioni ci racconta di come l'uomo e l'artista abbia generato, col suo semplice e ardito passare, stare e pronunciarsi, il racconto di un paese.

articolo pubblicato sabato 11 luglio 2015


di Lorenzo Donati , Serena Terranova


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