Tra bancarelle e mercatini e buskers, che già alla fine di novembre apprestano le strade all'atmosfera natalizia, tra luci e lampioni che fanno da contrappasso ai primi accenni di neve, in quasi tutte le più grandi città dell'Ucraina (Lviv – Kiev – Kharkov) file di basse fiammelle attraversano le piazze principali. Come piccoli altari “ritagliati” nel tessuto urbano, al loro interno si trovano mazzi di fiori, ritratti fotografici di morti in battaglia, immagini e pannelli informativi su fatti che, se raffrontati al contesto circostante, sembrano avvenire irrimediabilmente altrove, tanto da far apparire tali oggetti – appunto – delle “icone”. Da quasi due anni, al confine tra l'Ucraina e le regioni separatiste del Donbass, è in vigore il cessate il fuoco scaturito dagli accordi di “Minsk-2”. Una tregua che, se da una parte ha certamente consentito di ridurre l'intensità di scontri e bombardamenti, dall'altra non è però riuscita ad avviare alcun processo significativo di soluzione del conflitto né, tanto meno, di riappacificazione fra le due parti. Al contrario i combattimenti fra l'esercito nazionale e i ribelli rimangono all'ordine del giorno, ponendo sia i territori ufficiali dello stato est-europeo che le neonate repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk in una condizione “né di pace né di guerra”.
Né di pace né di guerra sono allora le fiammelle che si incontrano per le strade ucraine. Se nel flusso dell'ordinario incedere cittadino esse appaiono testimonianze dal sapore di “memorie”, non è raro che i leader dei gruppi più nazionalistici vi tengano dei comizi, incitando in tenuta militare all'azione contro i separatisti. La celebrazione diventa immediatamente propaganda (nel senso più neutro del termine). O meglio, è la seconda che assume giocoforza le forme della prima. Né di pace né di guerra è allora la quotidianità di un paese che cerca disperatamente di voltare pagina, ma si ritrova in uno stallo geopolitico dal quale sembra impossibile uscire con le proprie forze nel breve periodo (e in cui, appunto, contano le volontà di attori internazionali più grandi).
In tale quotidianità ancipite si ritrova a muoversi il teatro indipendente ucraino, interrogandosi su come potervi incidere efficacemente, a volte concedendosi il “lusso” di una pianificazione costante e progressiva, altre spinto da necessità e urgenze pratiche ancor prima che estetiche. L'annessione della Crimea e, successivamente, il conflitto nel Donbass hanno infatti generato una diaspora interna al territorio del paese che coinvolge anche molti teatranti, costretti a reinventarsi personalmente e artisticamente in aree diverse da quelle dove erano soliti operare. A Severodonetsk (circa 40 km dall'attuale confine fra Ucraina e repubbliche separatiste) Сергей Дорофеев ha preso in mano le redini della sala cittadina, dopo essere scappato da Lugansk dove lavorava per il teatro statale. A Lviv Наталя Меньшикова ha fondato assieme ad altri giovani professionisti e non una piccola struttura multifunzionale (dove agli spettacoli si alternano corsi e laboratori), allontanandosi dalla Crimea in seguito all'annessione per parte russa. A Kiev sono ora “di casa” Павел Юров e Антон Романов, due nomi molto conosciuti nell'ambiente di ricerca ma non solo. Il primo, regista e attore già affermato originario del Donbass ma stabile nella capitale ormai da anni, si è impegnato “sul campo” per raccontare il conflitto. Proprio mentre si trovava nei territori indipendenti, è stato sequestrato dai ribelli e detenuto per 70 giorni nella città di Sloviansk fino alla riconquista di quest'ultima da parte dell'esercito ucraino. Il secondo ha dovuto lasciare Sinferopoli (Crimea) dopo che il centro culturale con cui collaborava ha subito numerose minacce (anche armate). Rifugiatosi a Cherkassy si è poi mosso verso Kiev, dove è fra i fondatori e animatori del PostPlay Theater, struttura indipendente che riunisce molte delle giovani leve teatrali del paese.
Assieme a loro tanti altri fra registi, attori e direttori che stanno lasciando i propri luoghi d'origine per ricollocarsi all'interno del paese, alimentando un “rimescolamento” e rinnovamento degli ambienti di produzione teatrale che certo già esisteva in precedenza (la capitale riuniva la maggior parte delle realtà indipendenti, anche grazie all'attività di strutture storiche come il centro di arte contemporanea Дах) ma che si è intensificato con gli ultimi eventi. È chiaro come tali movimenti non siano semplici spostamenti geografici, ma rechino con sé interrogativi politico-esistenziali che – con tutta probabilità – si riflettono poi sull'attività artistica dei singoli e dei gruppi. Innanzitutto, questo è palese, essersi ricollocati significa infatti non aderire ideologicamente (o anche solo a livello istintivo) agli sviluppi sociali e territoriali che si prospettano in Donbass e che in Crimea sono in parte già compiuti, quando non parteggiare attivamente per la riconquista di quelle aree per mano dell'esercito di Kiev. Per alcuni è un forte imperativo («Chi se n'è andato dal Donbass l'ha fatto per un principio morale: non è possibile vivere sotto una diversa bandiera, sotto chi non rispetta i tuoi ideali», ci dice Sergej Dorofeev, mentre Pavel Yurov si è prestato come volontario al rifornimento delle truppe ucraine di materiale medico; o ancora la piattaforma Изоляция, scacciata dalla propria sede a Donetsk e ristabilitasi a Kiev, che ha organizzato un'occupazione simbolica del padiglione russo all'ultima biennale di Venezia), per altri una semplice questione di sopravvivenza o mancanza di alternative («Che altro potevo fare?», ci confessa Natalia Menshikova, dichiarando poi di non voler analizzare le ragioni della sua fuga e di voler restare concentrata semplicemente sul teatro). In ogni caso, sia che si tratti di un mezzo per continuare a fare ciò che si è sempre fatto in condizioni di libertà sia che sussista una profonda implicazione nei fatti bellici, il trasferimento in altre città ci sembra costituire una sorta di “marchio” che denota al tempo stesso un'assenza e una presenza di fondo. L'assenza è ovviamente quella di una stabilità politica e lavorativa che, tutto sommato, esisteva prima dei recenti sconvolgimenti e che soprattutto non implicava in maniera così forte le divisioni su cui stanno cercando di far leva le opposte propagande (russofoni, filo-ucraini, neonazisti, pro-europei...). Conseguentemente, la presenza è costituita dalla necessità di doversi schierare (in primo luogo personalmente) rispetto a tali fazioni e di dover reinterpretare il ruolo dell'artista all'interno di una società attraversata da crescente disgregazione, sia reale che metaforica. Ed è forse proprio sull'asse di questa dicotomia, in un maggiore o minore sbilanciamento verso il polo dell'assenza (apparentemente malinconico, ma in realtà concreto e avvinghiato a un'idea affatto progettuale del presente) piuttosto che verso quello della presenza (sulle prime “combattivo”, ma continuamente animato da dubbi e tensioni), che si squadernano e si sviluppano le attitudini estetiche della giovane scena indipendente.
L'edificio del Postplay theater
Periferica eppure con una marcata componente internazionale, dall'architettura omogenea che fa apparire quasi sferico il suo centro ma attraversata da quartieri poco sviluppati o – verrebbe da dire – “inviluppati”, Lviv (estremo ovest dell'Ucraina) intreccia piani diversi fra loro e a tratti paradossali. La città è stata per larga parte della sua storia staccata dal resto del paese (come denotano lo stile austro-ungarico degli edifici e dalle influenze culturali polacche) ed è diventata però anche uno dei centri incubatori dell'identità ucraina nonché delle concezioni più aggressivamente nazionalistiche di quest'ultima (Pravy Sektor, Svoboda...). Qui forme di fruizione dello spazio urbano prettamente da “primo mondo” e tipiche di una società pacificata (tour cittadini in bicicletta, cineforum all'aperto, mercatini folkloristici...) convivono con i segni di una militarizzazione crescente (i già citati comizi, marce per le vie del centro, chiamate all'arruolamento...).
Andiamo a Sikhov, un'area-dormitorio che dista sette chilometri dal centro storico abitata principalmente da lavoratori e qualche studente. Tutt'altra omogeneità si profila all'ingresso del quartiere: un'ampia via centrale costeggiata dai tipici palazzi popolari di epoca sovietica. È proprio nella sala di un vecchio “kinoteatr” che ha trovato sede il Teatr “Domus” di Natalia Menshikova. Lasciata la Crimea nei tumultuosi giorni dell'annessione con la Russia, Natalia ha incontrato il giovane attore locale Денис Федешов, anche lui in cerca di uno spazio in cui poter fare teatro in maniera indipendente e libera. Da subito – ci raccontano – hanno sperimentato una forte solidarietà da parte delle persone con cui entravano di volta in volta in contatto: chi si offriva per fornire dei materiali, chi voleva occuparsi dei costumi per il primo spettacolo, chi (giunto anche lui dalla Crimea e con esperienza teatrale) chiedeva di unirsi a far parte della compagnia. È così nata una piccola comunità di amatori-professionisti che ha debuttato (con grosso successo di pubblico) lo scorso 9 ottobre e che cerca di mantenere ogni proposta (agli spettacoli si affiancano anche corsi e laboratori) a titolo gratuito.
Il loro è un approccio semplice e tendenzialmente “tradizionale” al teatro, ma talmente spontaneo da risultare comunque asciutto pur nella forte drammatizzazione del materiale scenico. Per tornare alla (arbitraria) categorizzazione di prima, è un teatro che ci sembra nutrirsi di quella dimensione dell'assenza, che negli spettacoli di Teatr Domus assume i tratti trasfigurati del sogno e l'incedere concitato dell'anelito. Fra sogno e realtà da Marquez – terzo spettacolo del gruppo – esprime la naturale (sebbene continuamente mortificata) inclinazione dell'essere umano a superare le barriere, a trascendere le gabbie in cui sente reclusa la propria individualità per cercare l'altro in orizzonti di destino comune. D'altronde – ci dice Menshikova – la volontà principale della compagnia è quella di “unire”, anche nella discordanza e a vari livelli: unire competenze artistiche diverse fra loro, unire nello spazio della visione un pubblico che vada dai giovanissimi agli anziani, unire infine il “privato” delle proprie vicissitudini e sensazioni a una condivisione progettuale più ampia, per quanto periferica e (orgogliosamente) piccola nel contesto generale della città. Assenza non significa allora rimpianto bensì “reminiscenza”, di modi e qualità dello stare insieme che, se al momento attuale non sono realizzabili pienamente, non è detto che pienamente non debbano essere desiderabili e – soprattutto – desiderati.
Uno spettacolo del Teatr Domus (videostill di lorenzo Adamo)
Quello di Anton Romanov è invece un approccio maggiormente frontale e diretto. In una sala ricavata dentro alla vecchia casa dei ferrotramvieri di Kiev (ora teatro Малой Оперы), inizia la propria performance togliendosi lentamente i vestiti. Il pubblico sembra essere un pubblico di “addetti ai lavori” – ci troviamo comunque all'interno di un piccolo spazio indipendente – composto per lo più da giovani. Una volta nudo e in piedi in mezzo agli spettatori, disposti in circolo, l'attore inizia una sorta di monologo-dialogo, che si interroga sul tema dell'identità. Alcuni rispondono coinvolti alle sue domande, altri si defilano non volendo partecipare attivamente, ma senza rifiutare la curiosità della visione. È una sorta di “riflessione performativa” in cui il corpo – utilizzato in maniera assolutamente non-drammatica e tendenzialmente statica – cerca di farsi veicolo per la condivisione di un intimo spaesamento. Anton Romanov nel suo “esserci sulla scena” smorza qualsiasi tensione, evita qualsiasi dinamismo che non sia funzionale allo svolgersi dei pensieri.
Com'è inevitabile nel ripercorrere le tracce della propria identità e dunque della propria biografia, nella performance fanno capolino gli eventi dell'attualità recente: Maidan, Crimea, Donbass... Allo stesso modo, tali avvenimenti risuonano anche negli altri spettacoli che si susseguono sul palco del Малой Оперы. Tre opere brevi, ancora in forma grezza e laboratoriale, parecchio incentrate sul testo e sulla rappresentazione della quotidianità di tanti ucraini che si ritrovano a convivere nello stesso luogo pur nelle divisioni crescenti (una coppia di fratelli trasferitasi a Kiev prima dell'esplosione del conflitto per ragioni economiche, i giovani della capitale che magari fanno parte del movimento volontario, etc...). Si tratta di una rassegna di “nuovo” teatro (in particolare studenti delle accademie) organizzata tra gli altri da Pavel Yurov, artista ormai affermato nonché profondamente implicato negli ultimi rivolgimenti sociali e politici. Pavel ci racconta di come le sommosse di Euromaidan siano scoppiate in maniera completamente improvvisa e di come da quella esperienza si siano generate – indirettamente - molte delle attuali energie sotterranee della società ucraina, anche artistiche. Per lui, le grandi proteste di piazza terminate con la caduta di Yanukovich, nonché i conflitti vi hanno fatto seguito, sono stati la molla per iniziare a produrre del teatro di tipo “documentario”, strettamente connesso con la realtà, ma soprattutto veloce, “sporco”, in grado di reagire ai fatti con prontezza. «Lo scopo della mia arte è quello di rassicurare chi è afflitto e affliggere chi è rassicurato, di 'disequilibrare' chi si sente saldo nelle proprie posizioni e riequilibrare chi si sente incerto», dice provando a immaginare quale sia un possibile ruolo delle pratiche sceniche, oggi in Ucraina.
D'altronde, la principale contraddizione entro cui gli artisti si trovano ora ad operare ci sembra proprio essere quella fra un forte processo di normalizzazione, sia posticcio (quando magari sostenuto da appelli propagandistici all'unità nazionale) che reale (nel momento in cui è dato dalla concreta esigenza delle persone di dover superare nella loro quotidianità lo “stato di emergenza”), e una situazione (geo)politica che certamente “normale” non è. In questo senso, lo spirito critico e la ponderatezza riflessiva dei protagonisti della scena indipendente (pur nella consapevolezza di dover in qualche modo “scuotere” e agire con prontezza) sono preziosi e costituiscono forse l'unico modo in cui il teatro può interpretare la propria posizione minoritaria non come condanna all'impotenza, ma occasione per la costruzione di prospettive inedite sul reale.
La performance Map of Identity di Anton Romanov (videostill di Lorenzo Adamo)
Anche perché, paradossalmente, quello presente sembra essere un momento fertile per il teatro di ricerca ucraino. Per la prima volta, infatti, pare che le forze indipendenti si stiano unendo per provare a far fronte a comuni problematiche e questioni, ma soprattutto nell'intento di far nascere un vero e proprio “circuito” alternativo che non si nutra soltanto di esperienze limitate ed episodi puntuali. È il caso del Дикий театр (“Teatro selvaggio”), nato nell'estate del 2015: una rete organizzativa di artisti che ha già all'attivo più di sette spettacoli. La fondatrice Ярослава Кравченко, già direttrice organizzativa di due fra i maggiori teatri statali di Kiev, ci dice che ha scelto di abbandonare l'ambiente ufficiale perché sentiva l'esigenza di un approccio diverso, maggiormente feroce e appunto “selvaggio”. In particolare, il progetto si fonda sull'osservazione e sulla consapevolezza che già esiste una fetta di pubblico alla ricerca di un teatro simile. La prima performance del Дикий театр – un'originale spettacolo-concerto basato sulla vita e l'opera di Ian Curtis – è nata in maniera estemporanea riscuotendo però un'inaspettata partecipazione. Andato in scena negli spazi non-convenzionali di Plaztforma, Joy Division della regista Ксения Скакун è poi stato riproposto in differenti strutture.
Inoltre la nascita di tale rete organizzativa è praticamente concomitante all'entrata in vigore di una riforma generale della cultura da parte dello stato ucraino che – per quanto curioso possa sembrare – ha molti punti di contatto con i provvedimenti recentemente presi anche in Italia. Vengono infatti introdotti un sistema di concorsi per il finanziamento e una commissione giudicante. Ma, nelle parole della stessa Ярослава, rimane il dubbio che si tratti di un'operazione di facciata. Le strutture gerarchiche all'interno delle sale statali così come la natura degli spettacoli da esse proposte sono rimaste per ora sostanzialmente invariate, dominate da un'attitudine al teatro che nella maggior parte dei casi è – ci riferiscono – di puro intrattenimento.
Ecco che allora – fra l'ingombrante presenza di rapidi mutamenti politici e la staticità di un ambiente artistico-istituzionale che si riproduce sempre uguale – la principale caratteristica della scena indipendente ucraina ci sembra essere quella di una certa “resilienza strategica”, che si sviluppa sia attraverso le urgenze personali che le progettualità collettive. Pur nella diversità delle poetiche nonché delle inclinazioni ideologiche, infatti, i tanti teatri alternativi della repubblica est-europea cambiano in continuazione, si dislocano, si riorganizzano, per poter rimanere se stessi, per conservare cioè la possibilità di assolvere al loro compito primario: costituire un “pungolo di alterità” dentro a una situazione che da una parte li vorrebbe strumenti di propaganda e dall'altra veicoli d'evasione.
Va rilevato tuttavia che, se certe istanze “propagandistiche” sono comunque comprensibili e come tali vengono infatti riassorbite nel teatro attraverso prese di posizioni nette da parte di alcuni spettacoli, anche la questione del considerare il teatro come mezzo d'evasione (o, se si vuole, d'intrattenimento) non può essere liquidata frettolosamente.
Dal maggio 2014 al luglio dello stesso anno, la città di Severodonetsk è caduta in mano alle milizie ribelli del Donbass, per poi venire bombardata e riconquistata dall'esercito ucraino. Ancora oggi – trovandosi a meno di 50 chilometri dal confine con le repubbliche indipendentiste – pur nel normale svolgersi della quotidianità si respira un'aria tesa e militarizzata (per arrivarvi è necessario passare attraverso alcuni posti di blocco). Allo stesso tempo, com'è usuale per i territori vicini alle aree di Donetsk e Lugansk, nel comune si sono ristabiliti numerosi “rifugiati interni” in fuga dal conflitto. Tra questi c'è Serghej Dorofeev, che ha assunto la direzione della sala teatrale cittadina e in poco tempo vi ha costruito attorno una nutrita compagnia di artisti e organizzatori (molti dei quali anch'essi riallocati interni). Ci racconta che in tanti hanno fatto espressa richiesta di lavorare per la struttura attribuendole un'importanza più ampia del solo aspetto artistico, al punto che quello di Severodonetsk è praticamente diventato il “teatro dei rifugiati ucraini”.
Fra le proposte, com'è consueto alcune sono legate a temi politici: qui è stato il regista Андрей Май con il suo Дневники Майдана (I diari del Maidan), uno degli spettacoli più significativi sulle proteste di Kiev. Ma, indagando più a fondo il “comune sentire” del pubblico, si capisce che desideri e aspettative degli spettatori spingono in altre direzioni. «La maggior parte delle persone vuole dimenticare - ci dice Serghej - o, comunque, vuole vedere qualcosa che sia in grado di alleviare il dolore e che le trasporti in una dimensione lontana da quella dei problemi che stanno vivendo o hanno vissuto». Dopo due anni di continua copertura televisiva, dibattiti, testimonianze, nel momento in cui l'inerzia non sembra pendere da alcun lato, la gente è – semplicemente – “stanca”. Per questo, continua Serghej, «la nostra offerta cerca di essere il più diversificata possibile, unendo agli spettacoli più impegnati commedie, fiabe per bambini, teatro-circo... il ruolo del teatro può anche essere quello di arrecare sollievo, e spesso è questo che i più cercano». Per quanto magari abituati a pensare la scena come un “luogo senza pietà” in cui essere inchiodati di fronte ai nostri problemi, riesce difficile dare torto a tale visione. A maggior ragione in un contesto come quello di Severodonetsk, dove la ricchezza delle proposte (non condizionata da nessun pre-orientamento estetico o ideologico) può essere mezzo per una filiazione più profonda e più sentita fra artisti e pubblico, fra istituzione culturale e comunità d'appartenenza. Si profila cioè una concezione, non certo inedita, del teatro come intervento sociale improntato all'assistenza e alla cura.
In un momento in cui molti dei processi conflittuali non sono ancora chiusi, si tratta di un'attitudine che rischia di cedere e allinearsi alla rassegnazione? Forse. Ma è altrettanto vero che la rassegnazione è certamente un “timbro” ora presente nella società ucraina ed è allora giusto che il teatro la rilevi e la riassorba sulla scena, pur nell'apparente ingenuità e semplicità dei modi.
Severodonetsk
Al netto delle difficoltà organizzativo-finanziarie e della consapevolezza di occupare una posizione minoritaria nel contesto generale, esiste fra gli artisti indipendenti una fiducia diffusa nelle potenzialità della cultura. Alcuni si spingono a dire che – se maggiormente capillare e sviluppata di come era in quelle aree – essa avrebbe potuto contrastare l'insorgere del conflitto nel Donbass, o che ad ogni modo avrebbe influenzato (in positivo) le sorti degli eventi recenti.
Affermazioni che appaiono a prima vista eccessivamente ottimistiche e, forse, anche un po' retoriche, ma che non è detto essere del tutto peregrine. Sopratutto in relazione al Donbass, infatti, la dimensione geopolitica della guerra in atto (certamente preponderante ma non esclusiva) così come l'insistere delle analisi sugli elementi puramente identitari (lingua, composizione etnica...) rischiano di far eclissare quella che è la sua natura – verrebbe da dire – “di classe”, o comunque più propriamente sociale. L'area all'estremo est dell'Ucraina dove ora si combatte per la separazione dal resto del paese è storicamente un'area dedita allo sfruttamento dei giacimenti di carbone e acciaio, in cui buona parte della popolazione è composta da operai impiegati appunto nel settore minerario. Settore nel quale, tra l'altro, il fenomeno dell'estrazione illegale, dunque privo di alcuna sorta di tutela o sostegno previdenziale, è molto esteso. Senza ovviamente che questo possa valere come motivazione esauriente, è chiaro che le eventuali forze eterodirette che hanno agito affinché potesse scoppiare una rivolta nell'area orientale del paese hanno trovato anche un ambiente fertile perché ciò accadesse, vale a dire un ampio (o magari solo sufficientemente profondo) malcontento causato anche dalla sostanziale assenza di politiche per una maggiore integrazione e sviluppo da parte del governo centrale [si veda, a questo proposito, il numero di Limes del gennaio 2016].
Il viaggio compiuto da Pavel Yurov e dall'artista Denis Grishchuck nelle zone del Donbass, terminato con il loro sequestro a opera dei ribelli separatisti, aveva come obiettivo raccontare questa dimensione del conflitto, o comunque osservare da vicino quale fosse la situazione sociale che ne stava consentendo l'insorgere. Allo stesso modo, uno degli spettacoli-laboratorio presentati al teatro Малой Оперы accenna a tali contraddittorie questioni: una coppia di fratelli trasferitasi a Kiev dalle regioni di Donetsk e Lugansk prima della guerra, discute su come sarebbe giusto schierarsi. «Non ti ricordi del perché ce ne siamo andati? Perché là non c'era alcun futuro per noi» – dice uno all'altro.
Il fatto che il teatro si faccia portavoce di accenti e interpretazioni che di solito rimangono eluse o sottotono nel dibattito pubblico rappresenta un punto importante e che, se avrà la capacità di estendersi oltre le ristrette cerchie in cui ora è diffuso, potrebbe anche avere una certa influenza negli sviluppi degli eventi conflittuali. Ma, più in generale, è in questo solco che si delinea forse la maggiore sfida del teatro di ricerca.
La periferia di Kiev
Se esiste infatti un modo per definire la rivolta di Euromaidan è probabilmente quello di “rivoluzione scippata”, sia per le comprovate influenze americane nei suoi inizi che per la reazione militare russa che ne è seguita. Attori e interessi più grandi si sono installati, mortificandole, su energie che erano in primo luogo energie di una “moltitudine civile”, certo contraddittoria ma in cui non è possibile non scorgere slanci progressivi e “positivamente eversivi”. Pertanto, gli sforzi e le traiettorie della scena indipendente ucraina oggi ci sembrano poter costituire un modo per provare a “strattonare” nuovamente l'inerzia storica verso la spontaneità di quella “democrazia insorgente” che si era creata nei momenti iniziali del movimento, per provare a risporcare e reibridare un presente ora precipitato in statiche categorizzazioni frontali.
Diceva Walter Benjamin che «in ogni epoca bisogna tentare di strappare la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla». Due anni dopo, il teatro pare allora essere il luogo in cui tornare interrogare ciò che è appena stato, per “ridestare la sua latenza di alterità”. Una meticolosa archeologia delle ceneri, per farle ridiventare braci.