Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un'altra Europa
Gianina Carbunariu (passata anche in Italia con Kebab) è una delle figure più conosciute della scena indipendente rumena. Ancora studente all'accademia teatrale, è stata fra i fondatori del progetto “Dramacum” nel 2002, che ha dato nuova linfa alla produzione drammaturgica della repubblica est-europea. Con la sua prima opera Stop the tempo del 2004 si è fatta conoscere a livello internazionale, intraprendendo un percorso individuale in continua evoluzione. In questa breve conversazione, ci racconta il suo teatro sempre attento alla realtà sociale del proprio paese, la genesi dei suoi spettacoli spesso “provocatori” (la prima di Kebab venne inizialmente vietata per linguaggio indecente) e le scelte compiute durante la sua intensa carriera.
La tua formazione teatrale è di stampo accademico, eppure hai intrapreso fin da subito un percorso indipendente. La scelta è nata da un'insoddisfazione verso il sistema teatrale rumeno?
La situazione che mi si presentava al momento di completare i miei studi da regista teatrale, nel 2004 a Bucarest, non mi sembrava interessante: il repertorio dei teatri ufficiali era composto al 99% da testi classici e avrei dovuto lavorare esclusivamente con le compagnie stabili già esistenti. Nonostante la mia giovane età, avevo la possibilità di far parte dei teatri statali ma ho intrapreso un'altra strada. Perciò ho scelto in maniera completamente autonoma di essere indipendente, non è stata in alcun modo una decisione forzata. Ed è una scelta di cui non mi pento, perché mi permette di operare in libertà e di seguire le mie idee fino in fondo. Ovviamente ha anche significato dover lavorare per un periodo molto lungo in condizioni di insicurezza finanziaria ma, in questo senso, sono stata abbastanza fortunata: la mia prima produzione indipendente è stata notata dagli operatori della Wiensbade Biennale of New Plays from Europe e ciò mi ha permesso di raggiungere presto una discreta visibilità internazionale. Visibilità cui comunque non prestavo attenzione inizialmente, volevo solo fare quello che sentivo essere meglio per le mie inclinazioni artistiche.
Proprio a questo proposito, lavori spesso all'estero. Senti che in Romania il tuo percorso non venga riconosciuto a sufficienza? Il pubblico che assiste ai tuoi spettacoli è lo stesso che generalmente segue il teatro statale?
Mentirei se dicessi che la critica non si è occupata dei miei lavori in Romania. Tuttavia ho sempre fatto poco caso al “riconoscimento”, occupare questa o quella “posizione” nel panorama teatrale nazionale non è mai stato fra i miei obiettivi. L'unica frustrazione che ho avuto agli inizi è stata – come dicevo – quella di trovare un supporto finanziario per realizzare i miei spettacoli. Per quanto riguarda il pubblico, ho sempre cercato di creare il contesto adatto affinché potesse essere interessato anche chi magari non è avvezzo al teatro o non lo frequenta abitualmente. Spesso i miei lavori trattano temi attuali dal punto di vista sociale e politico (la storia recente del paese, xenofobia, discriminazioni...) e cerco di organizzare discussioni aperte col pubblico, che in questo modo è più coinvolto. Così sono riuscita a crearmi molto presto un seguito in Bucarest, ma anche in altre città medio grandi come Cluj, Sibiu, Tirgu Mures, Timisoara. Penso che non esista una divisione netta: gli spettatori in Romania “migrano” abbastanza facilmente dal teatro statale a quello indipendente e viceversa.
Pensi dunque che il teatro debba avere un ruolo sociale o politico?
L'arte non può che essere contemporanea al proprio tempo. L'ossessione che mi ha trasmesso uno dei miei professori all'accademia è stata appunto quella di capire come poter connettere il teatro alla realtà circostante. Non tutti la pensano allo stesso modo in Romania e la mia scelta di essere indipendente deriva anche dalla necessità di seguire questa via.
In tal senso, per me è fondamentale il processo di ricerca e di raccolta di testimonianze che precede la costruzione vera e propria degli spettacoli. Mi focalizzo spesso su problemi circoscritti e su comunità ben definite (come è il caso di Sibiu per il progetto Cities on stage del 2013): credo che più una performance riesce a radicarsi nel contesto locale, più essa ha la possibilità di trasmettere un messaggio a livello universale. Inoltre, la dialettica con gli attori è importante. Vengono con me nelle città, nei villaggi ad ascoltare le persone che intervisto. Mi interessano le loro opinioni, la loro reazione al mondo. Da qui, da questa “osservazione condivisa” parte il mio lavoro con loro, dopodiché discutiamo, improvvisiamo, cerchiamo di problematizzare ogni momento della messa in scena per trasporre le nostre sensazioni ed emozioni sulla scena. Questo è ciò che mostrano i miei spettacoli: non la realtà, ma il nostro incontro con essa.