Da echi a gemiti, da sillabe a parole e infine a frasi compiute. Sono i discorsi del telepredicatore americano Jimmy Swaggart, sezionati e manipolati nella composizione di Marten Van Cauwenberghe che accompagna la danza di Lisbeth Gruwez in It’s going to get worse and worse and worse, my friend, spettacolo visto la scorsa settimana al festival Mantica.
È proprio la composizione di Van Cauwenberghe a essere il fulcro della performance: la sua musica accompagna o si fa accompagnare? L’intera esibizione della Gruwez gioca con questo interrogativo, rimane sospesa tra la passività e l’attività e incanta gli spettatori con una gestualità alla ricerca del dominio totale del linguaggio. Non che la danzatrice sia mai insicura nei suoi movimenti: ogni atto della Gruwez avvolge la nota corrispondente, ogni passo è ritagliato sulle vibrazioni degli echi di parole che sin da subito invadono la sala. Ma la performer all’inizio sembra non giocare d’anticipo; pare piuttosto che si lasci trascinare dalla musica e dalle porzioni di linguaggio che ne sono parte integrante. È solo gradualmente, con il progressivo svelarsi di un senso compiuto nelle frasi, che il ruolo si ribalta. La danzatrice diventa eloquente nel mostrare che è lei a comandare i suoni vocali. Improvvisamente a ogni suo gesto corrisponde una parola, in modo da scegliere quali frasi comporre. La prima è di una mera semplicità politica: «Abbiamo portato il progresso». Lo spettatore è davanti alla propaganda di un predicatore-performer che afferma i valori cattolici e occidentali dell’umanità. Ma è proprio con il chiarificarsi del linguaggio che l’uomo si fa ridicolo: la Gruwez, infatti, in questo momento di cambiamento modifica il suo vestiario alzandosi le calze e i calzini, apparendo più goffa. Non era meglio, allora, quella fase primitiva in cui ai suoni della voce umana corrispondeva la grazia di un corpo in un movimento fine a se stesso? Tant’è che presto arriva un’altra frase a rinnegare quella precedente, e che dà il titolo allo spettacolo: «Andrà peggio e peggio e peggio, amico mio». Come a dire che col linguaggio (e con il progresso) non arriverà niente di positivo, ma solo manipolazione del prossimo, solo propaganda fine a interessi personali, solo tentativi di coercizione della società. La danzatrice, infatti, è ora padrona del discorso che disegna col suo corpo, e riesce a catturare la massima attenzione del pubblico, prima impegnato solo a osservare la superficie estetica del suo ballo e ora concentrato ad attendere, senza respirare, il flusso delle frasi finalmente compiute. Lo spettatore si trova più a suo agio perché accolto nel pianeta delle convenzioni linguistiche, ma tali convenzioni sono sfruttate per trasmettere ideologie politiche e morali, quelle del predicatore cattolico Swaggart, appunto. La scelta del personaggio non è casuale: si tratta di una superstar televisiva che approfitta del suo carisma religioso per rastrellare il denaro altrui e arricchirsi.
Il linguaggio messo in scena dalle danze di Gruwez sembra allora connotarsi negativamente, qualcosa di contraffattto che la performer sfrutta per manipolare i più deboli (il pubblico nel senso generale di popolo). Lo shock è più elevato di quello che darebbe lo sparo di un proiettile: sono le parole la vera forza del controllo sociale; Lisbeth Gruwez incarna il predicatore che si appropria delle tecniche dialettiche per infiammare i suoi seguaci. Gli spettatori riescono a percepire la lotta dell’uomo contro la parola e il dominio del primo sulla seconda, e si accorgono nello stesso tempo della manipolazione subita, dell’incantesimo che si è avviato non appena le frasi hanno assunto un significato per catturare l’attenzione generale sul senso e non più sulla bellezza. Anche perché questa manipolazione, seppure molto insidiosa grazie ai decisi movimenti della danzatrice, rimane così leggera e graziosa da risultare piacevole. Il fragoroso applauso finale assume così una doppia valenza: da una parte rimane all’interno della rappresentazione, poiché frutto dell’entusiasmo dei fedeli esaltati per il discorso del predicatore Swaggart; dall’altra parte fuoriesce dalla finzione perché il pubblico intuisce il sottile meccanismo messo in atto dalla Gruwez, che si destreggia con abilità tra l’arte e la politica per appropriarsi dei meccanismi sociali e denudarli crudelmente.
Festival Màntica, Cesena, ottobre 2012