Entriamo in un’abitazione qualunque. Sono decine i manufatti che testimoniano i singoli vissuti dell’individuo: cimeli in un cassetto a evocare precisi eventi ogni volta che vengono sfiorati, fotografie di attimi impressi eternamente in una pellicola. Il passato è una certezza, e ci sono i nostri bagagli di feticci e di ricordi a dimostrarlo. Costruire un discorso sull’incertezza utilizzando questi simboli della certezza significa quindi dotarsi di una gabbia dalle maglie solide e dai ricchi contrasti con cui giocare artisticamente per architettare un’elaborata narrazione. Questo hanno fatto lacasadargilla, Muta Imago, Santasangre e Matteo Angius con Art you lost?, un’installazione site-specific che ha coinvolto ogni angolo del teatro India di Roma il 20 e 21 dicembre 2012. Nell’ambito di Perdutamente, progetto-cantiere teatrale che ha riunito diciotto compagnie romane per tre mesi a ragionare sul tema della perdita, Art you lost? ha costituito l’happening finale per riallacciare i nodi sciolti e formare un ultimo, grande punto interrogativo sull’ignoto destino del Teatro India, ennesima struttura su cui verrà appeso il cartello dei “lavori in corso”. È da tempo, infatti, che il consiglio di amministrazione (Comune di Roma, Provincia e Regione) ha approvato l’inizio dei lavori di ristrutturazione dell’India; lavori che dovevano iniziare proprio a dicembre. Nell’attesa Gabriele Lavia, direttore del Teatro di Roma, aveva offerto alle diciotto compagnie la possibilità di trasformare l’India in una sorta di factory temporanea, e questa stessa condizione di temporaneità ha portato gli artisti a orientare la loro ricerca sulla perdita, poiché si trovavano in una struttura che, come spesso capita nei lavori pubblici, sarebbe stata chiusa per un intervento di cui non è dato conoscere il termine certo. Il rischio è che questo suggestivo spazio culturale venga sottratto ai cittadini e agli artisti per lungo tempo: di qui tutto il ragionamento sviluppato da Art you lost?, i cui autori hanno saputo allestire un discorso che, partendo dalla raccolta di singole storie di vita, evoca l’immaginario collettivo del passato nella sua dimensione di quotidianità e di nostalgia, sfociando infine nel mare del futuro inteso come tempo dell’incertezza. Per il Teatro India questo discorso è più valido che mai: la sua “perdita” è già percepita perché i lavori di ristrutturazione cambieranno notevolmente una struttura amata dai frequentatori del teatro romano, la sua “incertezza” è palese poiché il cantiere è in programma, ma senza alcuna data precisa. Tant’è che, non essendo ancora giunti gli operai che dovevano montare le prime impalcature a dicembre, di Art you lost? è stata calendarizzata una replica dal 16 al 23 febbraio 2013.
C’è forse da rammaricarsi che i lavori pubblici del Teatro India non siano stati organizzati in maniera così sistematica ed efficiente come hanno invece fatto gli artisti per la gestazione di questa installazione. Prima che iniziassero le ultime tre settimane di apertura pubblica dell’India, con le compagnie che dal 3 al 19 dicembre hanno assemblato spezzoni di loro spettacoli per formare inedite contaminazioni e pensieri articolati sul tema prescelto, ai cittadini è stato chiesto di portare a teatro un’ora del loro tempo e un oggetto importante, con la consapevolezza che avrebbero dovuto separarsene per sempre. Il tempo serviva a registrare un’intervista sempre sul tema della perdita, il cui audio è stato trasmesso durante Art you lost? da decine di cuffie apposte in uno dei corridoi dell’India. Nella stanza più grande — la sala B, l’ultima in cui lo spettatore entra — sono invece stati disposti i feticci raccolti, di un panorama piuttosto variegato: da comuni sassi e mazzi di chiavi a una statua della Nike a grandezza naturale. Oggetti sottratti alla familiarità delle abitazioni per essere collocati in un percorso basato su storie individuali ma anonime, dove le singole esperienze si uniscono in una somma pulsante composta da tante poetiche del quotidiano. Ogni oggetto è infatti dotato di una lettera di accompagnamento scritta a mano dal suo proprietario, che racconta le ragioni per cui quel preciso cimelio è legato a un importante ricordo. Ma gli autori di Art you lost? hanno deciso di mantenere le due forme scollegate tra loro, vicine ma non unite: tutti i fogli lungo le pareti e tutti gli oggetti al centro della stessa stanza. Al pubblico è assegnato il compito di osservare non gli oggetti, bensì la loro fotografia incollata al di fuori della scatola che li contiene, sarcofago di un feticcio perduto e immortalato come in una lapide; e poi di leggere le lettere decontestualizzate dal loro riferimento fisico. L’intento non è unire le singole tracce, ma entrare in una rappresentazione distaccata dai vissuti individuali per raccontare una perdita che è quella del Teatro India e dei suoi abitanti reali e potenziali; dell’intera popolazione insomma, coinvolta a sua insaputa in un momento storico di notevoli cambiamenti e scarse certezze. L’oggi e il divenire appaiono bui, e infatti gli spettatori di Art you lost?, dopo avere ammirato gli enormi striscioni appesi alle pareti esterne dell’India, con le firme di tutti i partecipanti al progetto — altre tracce di singoli vissuti che si sciolgono nella collettività — all’ingresso dell’installazione ricevono in mano una torcia. L’interno del teatro è tenuto nella semioscurità, con gli spettatori costretti a utilizzare la propria luce personale per muoversi e osservare. L’utensile ancora non serve nel foyer, dove lungo le pareti scorrono le foto dei partecipanti all’installazione e i testi degli ultimi sms da loro inviati, con una cornice sonora di battiti, ticchettii e brandelli di voci che fanno entrare nella nuova dimensione temporale di intrecci tra passato e presente. Ma poi la torcia va necessariamente estratta dalla propria tasca una volta entrati nella sala A, che ospita un’enorme mappa di Roma sul pavimento. Qui, gli stessi cittadini che hanno lasciato il loro oggetto hanno anche scritto qualcosa che hanno perso vicino al luogo in cui il fatto è avvenuto. Arrivi e partenze che circondano la stazione Termini, scene d’infanzia nei pressi delle scuole elementari, tracce familiari nel proprio quartiere di residenza. Ricordi altrui che formano fiumi di acqua tiepida in cui è piacevole immergere un piede, e senza nemmeno accorgersene ci si trova dentro la corrente con tutto il corpo, a lasciarsi trasportare in vite estranee attraverso i loro frammenti impressi sul pavimento e illuminati temporaneamente dalla luce di una torcia. Diventa naturale percorrere a passi lenti tutta la mappa di dodici metri per dodici e cercare di leggere le centinaia di frasi redatte da diverse calligrafie, ma che in fondo formano un unico diario collettivo della comune storia umana, composta da ricordi destinati a perdersi nonostante l’istinto a conservarli per mantenere la memoria di sé. Una caratteristica che è però duplice, poiché l’essere umano, oltre a lasciare le proprie tracce, è per natura sempre stato portato a interessarsi a quelle altrui e dunque a costruire cornici per raccoglierle e metterle in mostra, dalle incisioni rupestri alle bacheche di Facebook. È da questa predisposizione che proviene l’impulso a passeggiare per una Roma ridotta in una mappa ma espansa di tracce di vita altrui che si connettono a quelle dello spettatore, scatenando una dimensione nostalgica per avvenimenti che non sono più, che appartengono alla storia altrui come alla propria; a quella dell’umanità intera nei suoi miliardi di vite possibili, tutte fatte entrare dentro lo spettatore attraverso il suo sguardo.
Presi dall’istintività di leggere tutte le tracce di vita e dalla piacevolezza nostalgica che esse scatenano, diventa difficile sollevare la testa china per osservare gli altri osservatori che, con le loro torce, si trovano immersi nel nostro stesso fiume. Ma quando si riesce a farlo, lo scarto è enorme: il passaggio all’osservazione di secondo ordine permette di accorgersi delle altre vite intorno a sé. Non quelle trascorse, le cui tracce sono sul pavimento, ma quelle attuali che dalla presenza nel teatro sono state trasportate nell’accoglienza del passato, nella dimensione della certezza storica. Alzare lo sguardo significa porsi davanti a uno specchio multiplo con decine di copie di sé, osservare gli altri spettatori di Art you lost? che camminano nell’oscurità e illuminano il sentiero alla ricerca di un passato comune. Dalla dimensione individuale e immersiva si passa alla consapevolezza di collettività e uguaglianza. Salito su questo nuovo gradino, per il singolo osservatore diventa difficile tornare a rifugiarsi nella sicurezza di quei ricordi impressi al suolo con oggetti e pennarelli indelebili che costruiscono un diario, un documentario, un libro di storia umana. Accorgersi degli altri esseri umani, immersi nel buio del presente alla ricerca di sicurezza nelle tracce del passato, significa capire che alla materia esistita e testimoniata del ricordo si contrappongono la vastità del presente, gli orizzonti non ancora tracciati, il futuro fosco e incerto. Significa percepire che nella dimensione attuale l’essere umano non riesce a orientarsi perché presenza troppo piccola in un mondo a espansione esponenziale.
Eccola dunque davanti a noi, l’umanità perdutasi, che utilizza una debole luce per cercare un sentiero di certezze e di memorie. Ma anche se il passato dà l’illusione che questa sicurezza ci sia, l’immersione di Art you lost? fa dimenticare la cornice in cui ci si trova, quella che è possibile percepire alzando ancora gli occhi al soffitto: quella del Teatro India che presto diventerà un cantiere. Allora anche il suolo comincia a traballare: non si può guardare alle tracce del passato, ma ricordarsi di essere in un ambiente perennemente indeterminato, in una collettività insicura che ha paura di guardare davanti a sé.
[articolo pubblicato il 4/02/2013]