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Paolini e Jack London, Ballata di uomini e cani hello
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«Ballata di uomini e cani è il mio atto di libertà sul palcoscenico». Così Marco Paolini definisce il suo ultimo lavoro durante i sei minuti di intervista che ci concede nel camerino al teatro comunale di Cervia, subito dopo essere andato in scena lo scorso martedì 9 aprile, portando un lavoro in forma non ancora definitiva. Ballata di uomini e cani è un’opera lontana dai temi civili a cui è abituato il pubblico di questo popolare attore-autore, che si è contraddistinto per l’elaborazione di racconti legati all’attualità sotto la forma di ciò che la critica ha definito “teatro di narrazione”, di cui Paolini è uno dei rappresentanti della prima generazione. In circa due ore l’attore, che inizialmente dichiara di incarnare i panni di Jack London, sviscera i tre racconti che compongono Ballata di uomini e cani, e lo fa accompagnato dalle musiche di Lorenzo Monguzzi, Angelo Baselli e Gianluca Casadei che sono parte integrante della narrazione, poiché impegnati a suonare e cantare sul palcoscenico composizioni originali che si sposano con la voce di Paolini e le atmosfere da lui evocate.



I tre racconti, narrati in prima persona, si intitolano Macchia, Bastardo e Preparare un fuoco, e sono incentrati sul rapporto tra uomo e cane ai tempi del “grande Nord”, quando la povertà e la speranza portavano gli uomini tra i boschi americani alla ricerca di fortuna. Si tratta di avventure in cui si consumano sfide e amicizie, passando dall’esilarante racconto di un cane portasfortuna che torna sempre dal suo padrone, nonostante i tentativi di volta in volta più architettati di abbandonarlo in quanto ostacolo per le sue ricerche di oro, a quello di un meticcio in un rapporto di odio-amore col suo padrone zingaro, fino ad arrivare alla commovente agonia di un uomo disperso nella neve che prova vanamente ad accendere un fuoco. È qui, alla fine dell’ultimo racconto in cui il cane abbandona il suo padrone che sta morendo assiderato, che Paolini rivela di avere sempre parlato nei panni dell’animale e non dell’uomo, nonostante si intuisse il contrario. Così, lo stretto legame del cane Macchia, che fa una dichiarazione d’amore al suo incredulo proprietario ritrovato dopo l’ennesimo abbandono, e la fedeltà di Bastardo per il suo padrone che lo odia, sfumano nel sofferto distacco del cane protagonista di Preparare un fuoco, che sa di dover fuggire alla ricerca di un rifugio e abbandonare il padrone in fin di vita. Ma tale distacco non sembra avere il sapore di vendetta: si potrebbe pensare che il terzo cane se ne vada perché stanco di essere fedele all’uomo che lo considera inutile e lo abbandona (come succede a Macchia) o che lo odia (nel caso di Bastardo), ma Paolini offre una diversa chiave di lettura con una riflessione finale sulla vita e sulla morte, attribuendo a tale gesto la predominanza dell’istinto di sopravvivenza rispetto al rapporto di amicizia. Ciò sfocia in una sorta di pessimismo cosmico: da questa realtà, raccontata alla maniera nuda di Paolini, non resta che distaccarsi e rassegnarsi.

La dimensione di Ballata di uomini e cani può sembrare lontana dalle cronache e dai temi civili di cui si è sempre occupato Paolini, a partire da Il racconto del Vajont (premio speciale Ubu per il teatro politico nel 1995) che ricostruisce la tragedia della diga veneta. Ma, al di là della riflessione esistenziale finale, anche Ballata di uomini e cani intende spronare a reagire, essendo anche un’accusa contro chi «la mattina, quando scende dal letto, sa già dove sono le pantofole per inforcarle senza toccare il pavimento freddo, e poi va in cucina e accende il fuoco per scaldare la moka preparata la sera prima», una delle tipologie di uomini sedentari su cui Paolini ironizza durante il suo spettacolo, contrapponendoli agli instancabili cercatori d’oro e agli esploratori di ghiacciai protagonisti dei racconti ispirati alle storie di Jack London.



È inevitabile, interrogando Paolini su Ballata di uomini e cani, partire dal cambiamento di tematiche che neppure l’attore-autore nega durante l’intervista. «Ho deciso di produrre qualcosa che il pubblico non si aspetta da me – spiega – come faccio quando mi prendo i miei momenti di libertà. In quanto cittadino, io respiro l’aria che mi circonda e mi riservo la libertà di poter scegliere cosa e come essere. Non voglio soddisfare le aspettative del pubblico, bensì differenziare i miei stimoli e scrivere testi in base al mio desiderio di provare nuove strade senza restare sempre vicino alle ansie e alle preoccupazioni del percorso di ricerca. Nel caso della Ballata non sono partito, come mi capita più spesso, da un’urgenza politica, bensì dall’intento di portare sul palcoscenico un tributo a Jack London, autore a cui devo una parte del mio immaginario adolescenziale, quando non avevo nemmeno un’idea di cosa fosse il teatro. Mi sono ispirato a Il richiamo della foresta e Zanna bianca, due suoi romanzi a mio parere antitetici tra loro, e ho inserito nel testo una parte riguardante la sua vita di scrittore e di uomo. In seguito ho aggiunto delle ballate composte e cantate da Lorenzo Monguzzi, un musicista con cui ho lavorato spesso ma che, per questo spettacolo, mi ha aiutato a costruire quello che intende essere un autentico racconto musicale. I testi di Jack London da cui sono partito, infatti, contengono frasi che non si possono semplicemente dire, ma che richiedono di inventare un ritmo orale per vestirle e farne repertorio per una drammaturgia». Il risultato è un racconto comunque in grado di affascinare per la differenza delle vite dei protagonisti rispetto a quelle tipiche della contemporaneità. Per questo viene da pensare che il notevole impatto popolare che si sono guadagnati il teatro di narrazione di Paolini e di altri autori non provenga dall’attualità dei temi scelti, spesso già molto radicati nell'immaginario del pubblico, bensì dalla modalità di narrazione più nuda e semplice rispetto a quella del teatro di ricerca di stampo più sperimentale. «Sotto questo aspetto, il teatro è come la poesia – osserva Paolini – ci sono poeti che si capiscono molto facilmente e poeti che scelgono di utilizzare parole più difficili. A me viene naturale, quando esistono due maniere per comunicare un’idea, optare per quella più semplice. Si tratta di una precisa scelta poetica». Una modalità che, sottolinea Paolini, non è stata affatto influenzata dal suo lavoro televisivo iniziato più di un decennio fa, portando Il racconto del Vajont in prima serata su Rai2, il 9 ottobre 1997, e raggiungendo ben 3.500.000 spettatori. «Con quell’evento ho portato il mio linguaggio teatrale in televisione, ma nulla della televisione ho conservato tornando a teatro. Il linguaggio televisivo non esiste, è una schifezza incomunicativa, mentre il teatro per come io lo concepisco – quello cioè fondato sulla parola intesa come suono – è musica e comunicazione. Il mio teatro non è cambiato entrando in televisione; ho solo dovuto imparare a tenere conto della telecamera e osservarla mentre parlavo. Quando ho iniziato a lavorare sullo schermo non recitavo già più da tanti anni a voce naturale, perché me l’ero rovinata, perciò ero già dotato di una tecnica fondata su un rapporto intimo tra voce e microfono, che è la stessa che utilizzavo in televisione. Per quanto mi riguarda, la tecnica teatrale ha a che fare principalmente con il corpo e con la voce». Una tecnica che in Paolini è consolidata, ma ciò non significa che non venga più allenata. «Anzi, più si invecchia e più si ha bisogno di esercitare la preparazione tecnica. Mi sto rendendo conto, arrivato a 57 anni, di essere costretto a lavorare per molto più tempo rispetto al passato, e per questo effettuo training attoriali sempre più lunghi. Ma chi mi guarda dalla platea non si rende conto di tutto l’allenamento che ho alle spalle».


di Alex Giuzio


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