Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un'altra Europa
Approdato recentemente anche a Bologna a Teatri di Vita, il Karakuli Dance Theater è passato per il palco di PlaStforma con l'irruenza di una locomotiva, fatta di carrozze diverse fra loro. One in the square è infatti una notevole prova corale, dove però i singoli danzatori, invece di fondersi e amalgamarsi in un'unica prospettiva coreografica, spiccano più che se fossero da soli. Un approccio al gesto lineare e sgangherato allo stesso tempo, in cui il rigore dello stile si sfalda spontaneamente in sensualità di corpi e immagini. Ne abbiamo parlato con la coreografa e danzatrice Olga Labovkina
Uno degli aspetti più interessanti della vostra performance è il modo in cui riesce a unire caos e ordine, a inserire un approccio alla danza totalmente estemporaneo in una struttura comunque chiara e calcolata. Come raggiungete tale equilibrio?
Penso sia un equilibrio che sorge spontaneamente dalla peculiare conformazione del gruppo. In altre parole non c'è quasi mai un forte impianto registico di partenza bensì uno stimolo per lavorare collettivamente. L'unione fra un approccio più estemporaneo e uno più misurato di cui parli deriva forse dal fatto che ogni membro proviene da esperienze diverse e, soprattutto, non fa parte dei Karakuli per sole qualità professionali. Dopo aver completato la mia formazione a San Pietroburgo e aver lavorato per altre compagnie, ho deciso di fondare il mio proprio gruppo. In quel momento ciò che mi interessava era trovare qualcuno che, al di là del suo bagaglio tecnico, avesse una personalità da esprimere e che fosse pronto a metterla in gioco. Ecco perché credo che sul palco, oltre a un'evidente concezione corale, emergano anche le forze singole che consentono tale unità. La nostra idea di arte si nutre e allo stesso alimenta una più ampia idea dello stare insieme e formare una comunità e, soprattutto, si evolve dialetticamente con l'evolversi del singolo.
Che cosa costituisce solitamente lo stimolo di partenza di cui parli?
Qualcosa di neutro, molto spesso un oggetto più che un tema o un'idea. Nel caso di One in the square, per esempio, siamo partiti dai materassi che, molto semplicemente, rispondevano a all'esigenza pratica di avere una scenografia economica e trasportabile. Dopodiché, ho lasciato che gli attori prendessero confidenza con l'oggetto e iniziassero a pensare individualmente a come poterlo utilizzare in scena. All'inizio di ogni prova, durante la prima mezz'ora, davo i materassi in mano agli attori e osservavo il modo in cui ci si rapportavano. L'unico loro compito era danzare con i materassi nella maniera più naturale possibile, spesso minimale, dando sfogo al proprio sentire. Poi abbiamo iniziato a lavorare in due gruppi: alcuni continuavano a fare improvvisazione con gli oggetti e altri iniziavano a pensare alla performance, per poi scambiarsi i ruoli. Infine, una volta che ognuno aveva raggiunto un buon livello di confidenza con l'oggetto e i suoi gesti erano pertanto sufficientemente definiti, ci siamo posti delle domande di senso. In questo modo è emerso ciò che potrebbe essere considerato il tema della performance, vale a dire la ricerca di benessere e conforto. Ci siamo infatti accorti che, attraverso la danza, creavamo la nostra propria "ecologia di benessere" con i materassi, portandoceli con noi, mettendoci sopra o al di sotto di essi, mantenendoli sempre a contatto. Siamo allora passati a un'indagine individuale di sentimenti e emozioni che ci legavano al tema, cercando di capire quali fossero per i nostri corpi le "zone" di benessere e malessere.
C'è dunque una forte connessione tra emozioni personali e uso del corpo...
Assolutamente. Anzi, solo attraverso il corpo possiamo rappresentare le nostre emozioni. Viviamo in una società completamente mediata, in cui l'esperire del mondo ci è in qualche modo già dato a priori, attraverso l'informazione, la tecnologia ecc. Al contrario, il nostro corpo, quando se ne ha consapevolezza è l'unico strumento per provare esperienze e dar loro un'espressione non-mediata. Anche per questo desidero avere spesso un punto di partenza concreto e tangibile per costruire le performance, per eliminare qualsiasi termine medio tra il gesto e chi lo compie. Grazie a questo processo gli oggetti che utilizziamo possono farsi metafora e diventare un tema su cui ragionare. Detto questo, credo che il nostro compito di artisti (contemporanei) sia quello di lasciare totalmente libera l'interpretazione di ciò che facciamo sul palco. Siamo partiti da un oggetto neutro che ci ha permesso di lavorare su scene sempre diverse, perché si prestava una continua ridefinizione di significato il quale rimane perciò inafferrabile da un punto di vista univoco.
Come vi rapportate al contesto bielorusso? Pensate che il teatro possa assumere una funzione anche politica?
Ciò che ci preme portare in scena è il nostro essere umani prima che cittadini. Dopodiché, è chiaro che non esiste un confine vero e proprio fra i due termini ma penso che confondere il teatro con l'attivismo possa diventare controproducente anche da un punto di vista politico. Il semplice opporsi o il voler per forza dire qualcosa di legato all'attualità diventano sterili se non accompagnati da istanze costruttive. Nel nostro caso significa partire da ciò che amiamo, la danza, per farvi ritorno dopo aver attraversato tutti gli ostacoli che potrebbero allontanarci da essa. In fondo, è questa la parabola tracciata da One in the square, come abbiamo cercato di sottolineare con la musica finale, che rappresenta una metafora del sole che sorge. In fondo, è questo il senso di tutto il nostro agire: nonostante tutto, ritornare a danzare.