L’aspirazione al successo e alla ricchezza, l’affermazione sociale a tutti i costi, la conservazione di una felice ma falsa apparenza, le bugie e i tradimenti di una famiglia piccolo-borghese che vive immersa nel “sogno americano”. In tre ore e mezza di spettacolo, con Morte di un commesso viaggiatore il Teatro dell’Elfo mette in scena il noto testo di Arthur Miller che dopo più di 60 anni dalla sua stesura continua a raccontarci le sfaccettature di una società che per ambire al benessere va alla deriva verso l’individualismo, l’immoralità, l’invidia e il materialismo. Merito non solo della drammaturgia, ma soprattutto di una messa in scena brillante nonostante la verbosità del testo, con la recitazione agile e dinamica di tutto il cast – in cui spicca un Elio De Capitani carico di emotiva vitalità che parla, salta, si agita instancabile nel ruolo del commesso viaggiatore Willy Loman che non vuole macchie sul proprio abito – e ancora del ritmo intrigante architettato dalla regia (sempre firmata da De Capitani) e della scenografia trasformista di Carlo Sala con le pareti che aprono, muovono, destrutturano la comune abitazione in apparenza disegnata per renderla espressione di quel sogno in cui vive immerso il protagonista. Tutto ciò va a potenziare l'opera di Miller per farla uscire dalla sua gabbia di classico e riportarla a parlarci come merita.
L’intreccio della vicenda è complesso: conosciamo Willy Loman, rappresentante commerciale, nel momento del suo tramonto, con la testa sempre nel suo fastoso passato, la stanchezza a farsi sentire e la delusione per i figli che non hanno seguito le sue orme. Ma la vita di Loman è in realtà tutta una presunzione costruita da Loman stesso: nello sviluppo della storia scopriamo quanto il suo lavoro sia mediocre e mal pagato, con gli affari che vanno male, e quanto quest'uomo sia orgoglioso, egoista e bugiardo, alla ricerca ossessiva del "segreto" per essere il "numero uno". Loman è un padre mistificatore e un marito infedele, ma di tutto questo rifiuta di rendersi conto, fino al suo tragico epilogo.
Veniamo a scoprire i neri risvolti della vita di Loman grazie a lunghi flashback che riescono a svelare l’ambiguità di questo personaggio, di cui si celebra un requiem finale nient’affatto scontato, nonostante il titolo lo anticipi: per quanto odiosi siano apparsi i suoi comportamenti verso la moglie e i figli, l’umana compassione non scompare per un uomo di cui De Capitani fa ben emergere una certa ingenuità. Quali sono le colpe di un padre orgoglioso che nasconde la verità ai suoi figli? Quali le responsabilità dei figli che si distaccano da un padre falso e fallito? E quanto queste colpe sono influenzate dal contesto sociale di brama per la ricchezza e l’affermazione? Domande forti che il Teatro dell’Elfo riesce a far esplodere, con in mezzo la figura della moglie Linda (Cristina Crippa), il femminile innocente che subisce la vicenda familiare con grande dolore e che asseconda sempre il marito per eccessivo amore. Vite avvelenate dall’ideologia capitalista che, ieri come oggi, manovra gli uomini, misura il loro valore solo in termini di denaro e di successo, li porta a fare di tutto per rincorrere l’affermazione, dal compromettere la propria famiglia al commettere suicidio. Un atto, quest’ultimo, che assume un grottesco valore di salvezza per il resto della famiglia: Loman, infatti, si toglie la vita per far incassare i soldi dell’assicurazione appena terminata di pagare, ottenendo così quella ricchezza che da vivo (e da cieco) non è stato capace di raggiungere.