Si chiamano Alaa Abu Gharbieh, Ivan Azazian, Mohammad Basha, Nidal Jouba, Bahaa Sous. Vengono da Gerusalemme e non hanno bisogno di rappresentare le loro storie: basta raccontarle ad alta voce. Quello che si narra in Amleto a Gerusalemme, nuovo spettacolo firmato da Gabriele Vacis e Marco Paolini, è il dramma dei conflitti bellici e di quelli familiari, delle grandi migrazioni e dei piccoli spostamenti per dei ragazzi palestinesi che hanno avuto la (s)fortuna di nascere nella Città Santa, dove le esistenze ruotano intorno alla propria nazionalità - e nel loro caso si tratta di esistenze imprigionate.
In una scenografia di oltre duemila bottiglie di plastica vuote che sistemano, calciano e riordinano per tutto lo spettacolo, componendo e distruggendo la verosimile mappa della città e la metaforica violenza che la sovrasta, i ragazzi raccontano le loro esperienze in arabo, tradotti simultaneamente da due giovani attori italiani (Giuseppe Fabris e Matteo Volpengo) e da una ragazza italiana di origini palestinesi (Amwar Odeh) che sovrappongono le rispettive voci con effetti anche comici.
I ragazzi palestinesi sono stati selezionati dalla scuola di teatro che Paolini e Vacis hanno ideato nel 2008 e realizzato grazie al supporto del Palestinian National Theatre, del Ministero degli Esteri italiano e della Cooperazione internazionale per lo sviluppo. Un’esperienza che non si è conclusa con la fine della scuola, ma che ha portato a un esito teatrale, prodotto dallo Stabile di Torino, concreto nel documentare una situazione che tutti conoscono solo per la superficie mediatica, intelligente nel farlo senza retorica, senza violenza gratuita e senza farsi bastare il “classico” schema della narrazione teatrale; commovente nella poesia e nel dolore che i ragazzi svelano, puri, con le loro storie di antenati, amori e viaggi lontani, riuscendo a usare la leggerezza e l'ironia per scacciare il contesto drammatico che rimane comunque sullo sfondo, con le rovine proiettate sullo schermo alle loro spalle.
Tra chi spiega le difficoltà di muoversi in città con documento che reca nazionalità “indefinita”, chi ha avuto gravi problemi di tossicodipendenza, chi viveva negli Stati Uniti ed è stato costretto a tornare in Palestina per scelta della madre terrorizzata dallo stile di vita nordamericano (un ritorno sofferto con rabbia, anche se il ragazzo riconosce che in Usa sarebbe stato «più felice ma anche più stupido», perché «lo insegna la propaganda») e chi ha accompagnato il padre in una lunga ricerca dei fratelli scomparsi durante la guerra, in Amleto a Gerusalemme assistiamo alla “banalità del male” tramite le storie raccontate dai ragazzi con una normalità spiazzante per il pubblico occidentale, abituato a vivere tutt’altra confortevole quotidianità. Storie intrecciate da alcuni versi dell’Amleto di Shakespeare recitati durante lo spettacolo, aggiungendo ulteriore carica emotiva e poetica, soprattutto perché è il classico universale con cui i ragazzi si sono misurati, ritrovandoci i medesimi e complessi dubbi esistenziali.
Ma il vero legame tra questi frammenti lo impersona soprattutto Marco Paolini, che riesce a restare in significativa sottrazione rispetto ai ragazzi, raccordando i loro racconti, evocando ricordi, commentando le storie e unendole alla sua esperienza a Gerusalemme di cui non sente «la magia» che si attendeva, a causa delle infiltrazioni occidentali tra l’Ikea, i souvenir, le pietre finte che ricostruiscono una città più volte distrutta e i pellegrinaggi al muro del pianto descritto come «happy hour della preghiera» (alcune battutine ammiccanti e certi movimenti un po’ goffi restano dei piccoli eccessi forse fuori luogo, così come la scenografia meccanica dall’effetto “a bocca aperta” per colmare una chiusura drammaturgica un po’ sbiadita e strascicata, ma tutto sommato la regia riesce a evitare di ritagliare Paolini nel rischioso ruolo di salvatore/maestro/divo per far emergere e dare autonomia a quelli che sono i veri protagonisti, evitando che lo spettacolo risulti confezionato e mantenendone una certa freschezza laboratoriale anziché renderlo lo scontato esito di una scuola).
In definitiva, con Amleto a Gerusalemme il teatro torna a essere quel bisogno primitivo in cui sfogare il proprio dolore, condividerlo con l’altro e combatterlo con l’adrenalina. Un dolore qui non ostentato ma messo a nudo con semplicità, che riesce a farci ricordare delle domande e delle emozioni complesse che esistono così forti e lontane dal nostro piatto benessere.