«Prendi questa spada e trafiggimi» dice un accorato Oscar De Summa, nei panni dell’anti-eroe shakespeariano, a Lady Anna. Ma nelle sue mani vediamo una pistola da filibustiere.
Fin da subito Riccardo III e le regine presenta dei curiosi “errori di sistema”, strambe dissonanze spazio-temporali. Nei costumi, innanzitutto: simboli ed elementi moderni si mischiano a vestiti d’epoca. Non siamo di fronte a un aggiornamento delle vicende ma a una loro allocazione a-storica, tanto che scenografia e oggetti di scena si attestano su un’estetica steampunk, che è appunto una dimensione sospesa fra passato e futuro. Nella recitazione, poi. «L’inverno del nostro scontento...» risuona fuligginoso e sepolcrale, a ricalcare perfettamente il testo originale. Lo sguardo sornione di De Summa tradisce però una sorta di scetticismo attoriale, dove la piena immedesimazione nel personaggio convive con il suo opposto, come a dire: davvero mi state chiedendo di declamare – ancora una volta – Shakespeare? Lo si può mettere in scena senza fare, in qualche modo, una parodia?
Lo spettacolo mostra allora la necessità di una prospettiva che accolga tutte le stratificazioni dell’opera in un solo lampo. Un microfono sul lato destro del palco, al quale si avvicina soltanto il protagonista principale, segna il confine fra la quarta parete e un oltre indefinito. Spesso Riccardo III esce dalla finzione e si rivolge direttamente al pubblico, facendosi “commentatore” onnisciente e divertito. Dall’altra parte Marco Manfredi, che interpreta il Duca di Buckingham, è un disc-jokey col kilt, orchestratore delle musiche e delle trame narrative. Le tre regine divengono invece pedine di un gioco più grande di loro, chiuse nella propria “bolla” di toni e registri che le colloca su un piano più distante dal pubblico. Stralci di recitazione tradizionalista affiancano visioni pulp (Lady Anna che si inietta dell’eroina in vena) e parossismi vocali (il lamento reiterato della Regina Margherita, che sfocia nel grottesco, e il rap-monologo della regina Elisabetta).
Verrebbe da pensare a una (semplice) destrutturazione dell’opera shakespeariana. C’è destrutturazione, certo, ma questa verte non sul testo in sé bensì su quella componente di enfatica spettacolarità che in noi il testo suscita e che dunque dà la misura della distanza che ci separa da esso. Ecco che avviene così un sottile slittamento. Per quanto non sempre lo spettacolo centri tale bersaglio, la domanda fondamentale non riguarda più il rapporto che noi abbiamo con i classici ma quanto la classicità sia ancora una dimensione del presente. La seducente “cialtroneria scenica” di De Summa, la sua sfacciata affabulatoria, sono dunque un gesto di auto-rimpicciolimento, poiché tese a mettere in ridicolo in primo luogo se stesso e, di riflesso, gli spettatori chiamati a partecipare al suo sghembo rito di riesumazione.
È grazie a questo sdrucciolevole scalino che Riccardo III e le regine riesce a schivare i già citati rischi della parodia da un lato e della rivisitazione dall’altro, pur rimanendo sostanzialmente fedele all’opera di partenza. Si capisce allora come, nonostante battute allusioni e ammiccamenti, nello spettacolo non vi sia ironia ma soltanto meta-ironia, che diventa sempre più preziosa quanto più ci avviciniamo allo sciogliersi del senso generale: l’estrema “superficialità” strutturale, la stiracchiatura del testo e delle sue stratificazioni, arrivano a costituire un’asse – forse l’unica possibile – su cui scivolare fin dentro il cuore e la testa del protagonista. Se Riccardo III è figura imperscrutabile, tutto ragione di stato e machiavellismo sociale, la sua glaciale e pura esteriorità passa a essere la cifra stilistica che da sola sostiene l’intero meccanismo rappresentativo, nel quale ritroviamo non già lo spessore morale del dramma ma un’esposizione obliqua delle intime motivazioni che lo animano. Senza alcun bisogno di scavo psicologico, le malvagie tensioni del personaggio vengono parcellizzate attraverso gli elementi formali in scena e noi subiamo verso di esse un fascino prettamente estetico, poiché prettamente estetico è appunto il coinvolgimento che ci richiede lo spettacolo.
A restituirci infine tutta l'oscura forza di sentimenti che ci sembravano invisibili, ma che ci trafiggono ora come una spada affilata. Pardon, come un colpo di pistola.