Pascal Rambert, L'arte del teatro (ph Luca del Pia)
Un attore espone al suo cane i propri pensieri riguardo al teatro e ricorda le sue esperienze dentro e fuori la scena, che diventano occasione di riflessione sulla situazione contemporanea di questa pratica artistica. Ne L'arte del teatro, Rambert ci parla infatti della delusione di fronte ai cambiamenti del teatro contemporaneo, e di come essi siano evidentemente anche specchio della attuale condizione sociale.
In una scenografia fondamentalmente inesistente vediamo il soliloquio autobiografico di un attore che, ormai verso la fine della carriera, cerca nel proprio cane un “luogo” dove essere accolto, dove poter raccontare di sé e del proprio percorso artistico. Tra nostalgia e rammarico, le parole danno vita a un tempo che si auto-rigenera ma che non ristagna: la dimensione irriproducibile del qui e ora.
Staccarsi dal testo significa vivere il momento presente, e questo substrato teorico lo ritroviamo nei richiami all'Arte del teatro di Craig, che vede l'opera teatrale come un testo scenico scritto attraverso la fusione di diversi elementi che ne costituiscono la base linguistica. Egli propose l'abolizione del testo letterario, ma non della parola, che invece deve scalzare il primato del testo e rilanciare il valore della scena.
Il protagonista, qui interpretato da Paolo Musio, rivede nel proprio passato i valori di un'attorialità genuina, tesa alla comunicazione e a un confronto col pubblico che è necessità antropologica ancor prima che estetica, tanto da parlare di un metaforico scambio di sangue, come rappresentazione dell'interiorità umana caratterizzata da un profondo bisogno di reciprocità.
Ricorda anche del proprio rapporto con le donne e con la giovinezza, dove la giovinezza diviene appunto possibilità di ricreare il tempo che invece è ora sempre più fuggevole. Ma la giovinezza così pura e leggera è anche rappresentazione dell'arte vista come qualcosa di superficiale: come mero desiderio di emergere non tanto come artisti del teatro, quanto sul profilo narcisistico della desiderabilità sociale.
Rambert, registra e drammaturgo francese, sembra fare, seppur indirettamente in questa sede, riferimenti alla propria patria come culla del teatro drammatico e della pièce bien faite, che pare essere richiamata qui con il nome di gioventù, e messa in contrapposizione all'età della maturità, con quelle che furono quindi le drammaturgie della crisi.
Una narrazione che utilizza la biografia del protagonista come pretesto per parlare della situazione del teatro contemporaneo e di come esso si sia modificato nel tempo. La critica al testocentrismo, che percorre tutto il monologo, mette in luce il bisogno di ritrovare sempre di più un contatto diretto e viscerale col pubblico, esprime l’urgenza di un teatro che si distacchi da un processo preventivo e che diventi sempre di più teatro consuntivo, dove il momento di produzione diviene prioritario rispetto alla rappresentazione stessa, dove i segni si stratificano diventando autonomi veicoli di senso, il cui unico mandato diviene comunicare con lo spettatore.
Una toccante riflessione sulla frammentazione del teatro post-drammatico, sul tempo che scorre, sull'amore per l'arte, sottolineati dalla presenza del levriero che, col suo impassibile stare in scena, diviene simbolo muto della provvisorietà dell'esistenza.
Ilaria Mazzari