Dal buio della platea delle figure si arrampicano disordinatamente per salire sul palco. È un gruppo di giovani ragazzi, maschi e femmine, composto dai partecipanti del laboratori tenuto da Oyes. C’è chi si incontra dopo tanto tempo, ma l’entusiasmo iniziale sfocia in un saluto malinconico: la loro vita non sta prendendo la piega che vorrebbero. Altri vanno a pescare anche se non sono mai riusciti a prendere un pesce, eppure lì, in quella barca isolati dal mondo, stanno bene. Appaiono come tanti “io” che rivendicano la loro presenza, il loro breve vissuto. Scherzano, e noi ridiamo della loro ironia mista a ingenuità. Ai colloqui di lavoro, quasi in una gara per il più forte e il più bravo, ostentano sforzi e conquiste. Una sicurezza, la loro, che presto si rivela mero scudo contro quel senso di impotenza di fronte ai sogni infranti nel vuoto delle possibilità. Sono singole individualità in cerca di futuro, ma faticano. Faticano a fare una lavatrice, a capire l’arte concettuale, a imporsi, a sognare, a credere, a trovare se stessi. Faticano semplicemente a esistere. Allora capiamo perché indossano quelle magliette lacerate da profondi strappi. Improvvisamente li vediamo schierati compatti di fronte a noi. Ci guardano. Eccoli, ci sono esistono. Non soli, ma in gruppo: individui diversi, uguali nell’affrontare il presente. A questo infatti è lanciata la sfida. Forse insieme qualcosa può cambiare.
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Come sopravvivere alla vita? Il trentacinquenne Ivan se lo chiede. Non si sente né abbastanza vecchio per mollare, né così giovane da ricominciare. Come riempire i prossimi anni?
Vania, spettacolo della compagnia milanese Oyes con regia di Stefano Cordella, racconta il senso di sconfitta e l’amarezza di una famiglia alle prese con il coma del padre Sergio, di cui avvertiamo la presenza solo dal soffio del respiratore. Quattro mura, tre generazioni a confronto, tutte vite in sospeso: chi nel tentativo di recuperare se stesso, chi nell’esitare davanti al futuro, chi tra la vita e la morte. Ecco ciò che rimane dello Zio Vania di Cechov: l’insoddisfazione per una vita che non si sente vissuta appieno in un presente che, oggi come ieri, anche se per motivi differenti, pare vuoto, assente, fermo. La porta in fondo al palco, appare come la sola via di fuga, l’unica speranza di un cambiamento. Chi esce, tuttavia, subito rientra. A ravvivare la casa soltanto il simpatico zio Ivan, appassionato di calcio e un gran burlone. Ha un amore smisurato per la nipote Sonia, a cui augura il meglio e di cui disapprova le serate di sballo. “Ai suoi tempi” sapevano come divertirsi, lui e il dottore: un po’ “alticci” per l’alcol, ricordano simpatici episodi giovanili. Il riso però lascia presto il posto alla nostalgia: dove sono finiti quei ragazzi spensierati e pieni di sogni? Perché ora sono così infelici? Se lo chiede anche Elena, sempre glaciale e composta per mascherare il suo tormento, così sentito da tentare il suicidio sottraendo una fiala di morfina dalla borsa del dottore. Innamorata senza speranza di quest’ultimo, Sonia è l’unica che, nonostante le insicurezze, riesce ancora a sognare: ama cantare, vuole partire per Londra, farà la cameriera intanto, poi chissà. In fondo, però, si sente sconfitta in partenza: perfetta esemplare della “Generazione Né Né”, non studia né lavora, non parte né resta. Sente il peso dei “padri” che invece di farsi da parte sopravvivono, costringendo anche i “figli” al “respiratore” che li tiene in vita. È un passato che invece di farsi memoria, vorrebbe ritornare; sono “padri” che non riescono a lasciare ai figli un’eredità da soggettivare per tracciare nuovi percorsi. Sonia se ne andrà, ma presto rientrerà da quella porta sullo sfondo, restituendo allo zio una piccola luce nel buio in cui tentò di spegnere il respiratore del fratello. Il suo respiratore. Ora insieme proveranno a dare un senso al proprio presente. Qualcosa prima o poi accadrà. Se ne stanno fermi come alberi, in attesa che il vento soffi e muova le foglie.
Ilaria Cecchinato