Forse pochi sanno che il “sultano” Recep Tayyip Erdoğan, molto prima di diventare leader della repubblica turca, è stato autore di uno spettacolo teatrale.
Maskomya, stando alle scarse testimonianze che si possono trovare, è una commedia in cui si condensano, sinistramente, le ossessioni politiche dell'allora presidente della sezione di Istanbul del Partito della Salvezza Nazionale (nelle cui fila Erdoğan ha cominciato la propria carriera), vale a dire massoneria (MASon), comunisti (KOMünist) ed ebrei (YAhudi), presentate nel corso della rappresentazione come mali assoluti che mettono a repentaglio la sopravvivenza dello stato mediorientale.
Un aneddoto rivelatore di quanto arte e propaganda, parole e società, discorso e potere (teatro e verità, verrebbe da dire) siano intrecci ancora ben saldi in Turchia. Con un'intensità per certi versi inaspettata – visto anche il forte avvicinamento con l'Unione europea nei primi anni della sua presidenza - ma per altri anticipata dalla stratificazione costante e inesorabile di problematici rapporti di forza fra il governo e altre potenze più o meno occulte - il cosiddetto “stato profondo” da tanti denunciato ben prima del tentato golpe del 15 luglio 2016 – Erdoğan ha avviato una repressione contro dissidenti e oppositori che ha pochi eguali nella storia recente. Repressione che, come abbiamo
documentato in altre occasioni, va spesso a coinvolgere gli ambiti dell'espressività artistica e culturale.
Andare a intercettare testimonianze, pensieri e umori di alcuni rappresentanti della scena teatrale del paese può significare allora varie cose. Innanzitutto (è forse bene ribadirlo anche per quel poco che vale) provare a scandire un “segno di supporto” verso chi decide di portare avanti la franchezza e sincerità del proprio sguardo contro dinamiche che fanno di tutto per sottrargliele. Convinti che il “lusso” della critica, del racconto o dell'auto-riflessione possano rivelarsi quanto più necessari in un momento di emergenza ed eccezione come quello attuale. Banalmente, è poi un modo per capire più nel dettaglio in che direzioni venga condotta una tale repressione, chi va a colpire e perché, ma soprattutto quali campi di libertà e azione rimangano da percorrere e come farlo.
Inoltre, si ha il sentore che interrogare il teatro nella “crisi del teatro stesso”, in una situazione cioè di gravi limitazioni del diritto di espressione, voglia dire smuovere urgenze e motivazioni ultime della scena. L'ostinazione del teatro, il suo ripetersi nonostante l'apparente difficoltà del suo darsi, sono il sintomo di una forza intrinseca o piuttosto il mascheramento di necessità espressive di altra natura (politica, sociale, giornalistica...)? Ma è poi il teatro veramente un modo di
esprimersi?
Dalle parole degli artisti che potete trovare in questo ciclo di interviste, sembrerebbe che l'attività scenica in Turchia si inserisca sempre in un
continuum più ampio. Relazionale, come nel caso della compagnia Çiplak Ayaklar, il cui spazio di prova e di messa in scena degli spettacoli è anche spazio di vita comune e per cui collaborazione creativa è soprattutto condivisione di determinati valori; di ricerca identitaria, che investe soprattutto chi opera nel contesto curdo, come l'ex-compagnia municipale di Diyarbakır o il collettivo di intellettuali e artisti di Pale Huner, spingendolo al recupero e alla trasfigurazione linguistica di elementi del folklore, della tradizione, della narrazione orale; oppure, è il caso di Mizra Metin, per via opposta all'ibridazione ed esplorazione costanti di differenti culture e grammatiche teatrali, cercando nella fusione e nell'apertura le basi per una soggettività più definita; di attivismo e agitazione sociale, ben rappresentati dal piglio quasi “picaresco” di Giyosettin Şehir, che è passato senza soluzione di continuità dal teatro di strada al cinema, da progetti interdisciplinari a rappresentazioni più classiche. In generale, il
continuum è quello dell'appartenenza consapevole a un “ambiente”, una collettività culturale e intellettuale che pare assumersi senza esitazioni il dovere dell'impegno e della militanza.
Ecco che in tal senso il teatro diventa in Turchia più “impressione” che “espressione”, volontà di ricondurre a unità e precipitare in una forma suggestioni imprecise ma diffuse, captate in una quotidianità fatta di aggressioni, comunità e lotte. Una sorta di rito di “raccoglimento”, che però non significa arresto o decelerazione ma che appunto si pensa inserito in una linea di azioni e riflessioni più grandi e che dunque sa di “servire” se non proprio una causa, quantomeno dei processi comuni.
Non stupisce quindi che i nomi del teatro europeo che si citano maggiormente a modelli siano quelli di Dario Fo, Brecht, Barba e Grotowski. I nomi cioè di concezioni sceniche saldamente ancorate a un senso dell'ideologia come veicolo di emancipazione. Da questo punto di vista, osservare quello che sta accadendo in Turchia assume allora grande importanza anche dal nostro contesto. La repubblica mediorientale oggi è veramente un esempio lampante, spinto quasi al parossismo, di ciò che viene giustamente definito “ordine geopolitico multipolare”: l'esercizio sempre più stringente di una
governance che, se in alcune occasioni assume forme di repressione dure e dirette, praticamente “ultra-novecentesche”, in altre si serve delle pratiche meno eclatanti e più scivolose (che bene abbiamo imparato a conoscere) della gentrification, del restyling e pianificazione urbana, del turismo come neutralizzazione del conflitto, dello Stato-impresa; la struttura istituzionale laicista e militare che sembra soccombere all'emergere del fenomeno religioso, con la sua capacità di condurre le masse sia alla supina accettazione del presente che all'estremo sacrificio per cambiarlo; l'insorgere di territori (e il “risorgere” delle relative questioni territoriali), che reclamano da un secolo la propria indipendenza, come il Kurdistan, o che magari si percepiscono esclusi dai processi di arricchimento collettivo, come tante aree del sud-ovest ma anche singoli quartieri delle città principali… il tutto stretti fra la “fortezza Europa”, “bisognosa” di accordi per fermare il flusso di profughi diretti sul proprio suolo, e la guerra siriana, in cui Erdoğan è sempre più deciso a giocare un ruolo da protagonista.
Di fronte a queste dinamiche, la scena turca non indietreggia. Fa della propria marginalità uno spazio di comunicazione più sicuro (forse) e più libero, provando comunque a essere inclusiva. Indaga il passato, che potrebbe apparire innocuo, ma per comporre possibili identità del futuro. Ricerca una lingua comune, che si nutra però di grammatiche plurali.
A pesare, delle condizioni produttive difficili e destinate anche a peggiorare. Ma in mezzo, una rete di affiliazioni e curiosità reciproche che forse mai come adesso si rivela in tutta la sua “precaria preziosità”.
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