C’è un regista giovane, come si può essere giovani in Italia, che prima s’è inventato a Bologna insieme a un manipolo di “scappati di casa”, come ama definirli lui, il Festival 2030 interamente ideato, curato e organizzato da ragazzi tra i 20 e i 30 anni e ora, che di anni lui ne ha 31, ha pensato di mettere in scena le 5 direzioni artistiche under 30 presenti in Italia stilando un Manifesto visto in prima assoluta (e unica, per ora) all’Arena del Sole a fine novembre. Poco dopo, grazie allo zampino di Elena Di Gioia e della sua stagione Agorà che abbraccia e contamina la provincia di Bologna, ha incontrato una ventina di ragazzi delle superiori dell’Istituto Keynes di Castelmaggiore. Nicola Borghesi, anima di Kepler452, insieme a Enrico Baraldi e Paola Aiello, hanno intervistato chi tra gli adolescenti del Keynes avesse curiosità e desiderio di dire la propria attorno alle domande che Pasolini fece nei sui Comizi d’Amore nel 1963 per fare affiorare come oggi i ragazzi vivono l’amore, la sessualità, l’erotismo e la famiglia. Nasce così, in una decina di giorni di interviste e in una manciata di giorni tra montaggio e prove, Comizi d’amore #adolescenti, uno spettacolo delicato e crudele, lieve e feroce ambientato proprio in quell’istituto scolastico che i ragazzi quotidianamente abitano. Borghesi, già avvezzo al “teatro della realtà” e a questo tipo di indagini tra sociologia e teatro, aveva già portato in scena i Comizi d’amore #Galaxy, luogo “caldo” della città, definito con un eufemismo, un residence, ora sgomberato, al cui interno trovarono ricovero un’ottantina di famiglie in condizione di necessità. Il “format” ideato da Kepler452 e proposto per offrire le domande del poeta a 54 anni di distanza, da un luogo di criticità, si è trasferito per l’occasione in una scuola superiore di provincia. Gli spettatori, entrando con le tenebre nell’atrio di una scuola, son portati fin da subito a vivere un viaggio da incubo tra l’onirico e il labirintico, condotti lungo un percorso itinerante negli spazi della scuola, dall’ingresso, attraverso i corridoi, fino alla palestra, senza mai entrare nelle classi, senza mai vedere i banchi, quasi a testimonianza di cosa il regista e i suoi volessero sottolineare: la vita è tutta qui, non nel perimetro dell’aula, non in quella visione frontale di chi ascolta chi parla, ma serpeggia fuori, accanto alle macchinette del caffè o di sfuggita nei corridoi adibiti a connettere la parte dell’Istituto dei “liceali” a quella dei “geometri”. Il Keyness, spettrale e livido, diventa un magico mondo all’incontrario dove il capovolgimento è l’unica regola per orientarsi nella visione e nell’esperienza spettatoriale: “loro” ci parlano dalla cattedra, noi ascoltiamo seduti sulle seggiole di legno scheggiate della scuola, loro stanno sopra a un corridoio che diventa balcone e declamano in coro una poesia di Pasolini “Siamo stanchi di diventare giovani seri, o contenti per forza, o criminali, o nevrotici: vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare. Non vogliamo essere subito già così sicuri. Non vogliamo essere subito già così senza sogni. Sciopero, sciopero, compagni! Per i nostri doveri. Signor Maestro, la smetta di trattarci come scemi. Non ci aduli, siamo uomini, Signor Maestro!”, noi sotto veniamo trafitti dalla forza delle parole e dall’impeto dei loro corpi affacciati, sbilanciati verso il baratro, che ci convocano con i loro sguardi aghiformi capaci di toccare corde lontane che rimettono in moto, oltre che in gioco, tutto il nostro lungo vissuto. Dopo questo inizio compatto e incandescente la sapiente drammaturgia intesse un valzer di voci in assolo o corali, dove racconti autobiografici ora lievi, ora ironici, ora di una lucidità disarmante, riescono a raccontare con la sfrontatezza dell’adolescenza della “prima volta”, immaginare la storia d’amore tra un gelopode e un entomologo come metafora dell’amore impossibile o giustapporre al SI e al NO anche un BOH nel racconto di Nicolò che offre in quella terza opzione una possibilità tutta sfumata di scelta. Poi ci sono le liste e le indagini statistiche, firma distintiva di Kepler, come quella stilata da due ragazze inerente alle cose che possono chiederti di fare in una relazione: “non uscire, non mostrare le gambe, non vestirsi scollate, non mettere il rossetto…” dove sotto la forma del gioco si annidano soprusi in odor di repressione, prepotenza dettata dall’insicurezza, la brutalità che non accetta la semplice unicità del singolo “la verità è che sono normale, non speciale. Io non sono meravigliosa, sono Giulia”.
E via via, racconto dopo racconto, si compone un affresco composito e polifonico dove viene trattato tutto quello che viene in mente attorno alle parole amore e sessualità (dall’omosessualità al questioning, dai rapporti di forza e potere, all’amore per la famiglia) ma anche attorno ai cliché e agli stereotipi (“al Keynes devi saperti vestire, devi saperti truccare, devi essere alta e avere un corpo giusto, indossare i jeans a vita alta….”) tuttavia nessun adolescente ha riportato nei propri racconti sensazioni fisiche o sublimate che possano raccontare dell’amore partendo dal corpo. Mani sudate, insonnia, inappetenza, azzeramento della saliva, batticuore, eccitazione smodata, nessuno ne parla. Per nessuno dar voce al corpo è stata una priorità o la cosa più ovvia e semplice per esprimere ciò che accade “dentro”, come se solo l’effetto, il “fuori”, il “visibile” come conseguenza dell’amore fosse degno di nota, ponderabile, misurabile, raccontabile. In tempi in cui ci si espone per immagini, tra un selfie e una story su instagram, tornare all’ascolto corporeo potrebbe essere una possibile strada. Lo spettacolo vede la sua conclusione in palestra, luogo del gioco, dove anche il gioco teatrale vede il suo epilogo. Borghesi, dopo aver catturato segretamente alcuni discorsi tra ragazzi al bar antistante la scuola, li legge pedissequamente in tutta la loro estemporanea violenza, per aprire più che per concludere un discorso, partendo da una delle ultime domande di Pasolini: “Qual è l’Italia vera, quella che si vede nel mio documentario o l’altra?” E allora Borghesi si chiede e ci chiede: “Qual è il Keynes vero, quello che avete visto fin qua o l’altro, quello che non è voluto venire in scena con noi?”. Ecco che all’amore si aggiunge la politica, i comizi, appunto. Ma tutta questa violenza dove va a finire una volta compressa tra le mura di una scuola? Potrebbe forse essere che le scuole, tra circolari, burocrazia e protocolli si stiano barricando contro i loro stessi abitanti? Nei sistemi scolastici sempre più atti a controllare, a rassicurare e a erigere barriere, si protegge chi e contro cosa? Domande legittime a cui io mi sono risposta notando nell’atrio un murales con un cuore alato che ricorda Enrico, un ragazzino di 15 anni morto qualche anno fa in classe per un malore. Una scuola capace di ricordare la morte e celebrare la vita è la scuola di cui abbiamo bisogno oggi più che mai, proprio oggi che la tendenza sarebbe quella di barricarsi. Una scuola che è stata capace di ospitare i Comizi di Kepler, nonostante qualche difficoltà organizzativa, è una scuola aperta che appartiene alla città e ai suoi cittadini, compresi quelli che ancora non votano ma che lo faranno a breve. Grazie quindi ai Dirigenti che ancora oggi aprono le scuole e permettono che queste cose accadano, a chi cerca di realizzarlo con tenacia e perseveranza e a chi si mette in gioco in questa partita.