L'ultimo spettacolo della compagnia Kepler452, prodotto da Emilia Romagna Teatro, ci ha molto colpito sia per il modo con il quale affronta temi scottanti della città di Bologna, sia per la forma anomala che utilizza. Si parte da Cechov e si arriva a Bologna. In mezzo le ferite, le domande, gli slanci dei nostri giorni.
Una recensione doppia a cura di Agnese Doria e Rodolfo Sacchettini.
È un abisso, un ammasso informe e scuro, illuminato qui e lì da luci fioche che appaiono come epifanie e riflessi, dalla scena affiorano fantasmi che siedono accanto ai vivi. I ricordi di un presente ancora vivo e non distante si intrecciano ai classici del passato ne Il giardino dei ciliegi firmato Kepler452, nella scena immaginata e realizzata da Letizia Calori con lo zampino d’autore di un grande “lucifero” come Vincent Longuemare. E mentre Lodo (Guenzi), Paola (Aiello) e Nicola (Borghesi) si manifestano fin da subito seduti sulla quella ideale soglia che divide il palco dalla platea della sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole, per raccontarci qualcosa che si colloca in un tempo cronologicamente puntuale seppur narrato tra sbalzi e vertigini, alle loro spalle scatoloni, gabbie e voliere, damigiane, abat-jour, un lampadario, un divano coperto riempiono la scena della storia di Annalisa Lenzi e Giuliano Bianchi che fin qui vengono solo evocati. Tutti gli oggetti e i mobili che vediamo affastellati sono di Giuliano e Annalisa, temporaneamente stoccati in un magazzino di Granarolo e dissepolti da Kepler452 in occasione della messa in scena. Lo scavo inizia da qui, ma qui non si placa. Lo spettacolo ha inizio in una luce che abbraccia platea e attori in modo uniforme per poi inabissarsi fin da subito, focalizzandosi sul palco, illuminandolo con una luce cupa, calda, vibrante.
Annalisa e Giuliano sono al tempo stesso Ljuba e Gaev del testo checoviano e loro stessi, ci raccontano tanto della loro storia personale e della fine del sogno che avevano costruito in trent’anni nella casa colonica di un quartiere periferico di Bologna, quanto, per cenni e assonanze, della nota vicenda narrata nell’ultima “commedia” di Cechov. L’entrata in scena dei due protagonisti, con valigie, pellicce e una pianta in mano, è una rivelazione, sostenuta dai suoni di Alberto “Bebo” Guidetti, capace di accompagnare tutta la drammaturgia sottolineando e contrappesando con sonorità vibranti la storia, senza però eccedere nel facile sentimentalismo. Una partitura raffinatissima, intensa e palpitante che molto ha aiutato lo spettatore a immergersi in questo racconto politico, umano, affettivo. “Immaginate” è verbo ricorrente, il pubblico è chiamato quindi a immaginare ora il campo di girasoli davanti alla casa colonica dei Bianchi, ora il giardino nato su una grondaia del Galaxy, “posto dove sbattono i poveri e gli chiedono anche 200 euro al mese” dove sono stati ospitati Annalisa e Giuliano dopo lo sgombero di Via Fantoni, ora la mortadella disegnata da Blu, street artist di fama internazionale, in uno dei suoi murales più famosi, da lui rimosso per impedire che le sue opere fossero esposte in una mostra a pagamento. E a suon di visioni collettive, entriamo e usciamo, ora cullati ora schiaffeggiati, da Cechov ai giorni nostri, in un esercizio comune di memoria e consapevolezza di ciò che ci sta attorno. Il percorso e l’importanza dei classici ci si palesa in modo chiaro: la possibilità di farli vivere nella nostra quotidianità, l’opportunità che ci offrono di parlare di noi e di ciò che ci circonda, la capacità che hanno di interrogarci. Ma se quest’ultima opera di Cechov si incardina soprattutto sulla memoria, non è l’unico tema che fa respirare. Molto ruota attorno alla proprietà, alla perdita della stessa e al legame identitario che a questa si avviluppa. Andando in una classe di scuola superiore, in una seconda Liceo Scientifico, ho potuto tastare con mano come questo spettacolo potesse arrivare a dei ragazzi di sedici anni. Il concetto di proprietà, oggi, è orizzonte reale solo per una fetta di popolazione decisamente matura, ma non appartiene (nella sua accezione più classica ovvero di possedere delle cose) né ai 30/40enni che dovrebbero avere potere economico e d’acquisto, né tanto meno a chi è più giovane. Quindi azzeccato risulta l’aver tirato in ballo Blu che intende come proprietà il suo gesto artistico donato alla collettività tramite grandi opere sulle facciate degli edifici, poi rimosse con un preciso e forte gesto politico. La casa, bene-simbolo per una generazione che ha lottato per darne una a tutti negli anni 70, risulta essere oggi più una questione privata che fa i conti sull’aiuto di mammà, sull’eredità di papà (nella migliore delle ipotesi) e su mutui non concessi dalle banche alla maggioranza di noi lavoratori instabili. Ma se non potrò lasciare in eredità nemmeno una casa a chi verrà, quale segno tangibile potrò mai donare al prossimo? Nell’impossibilità di acquistare beni, accumulare averi, migliorare la mia situazione, quale forma di trasmissione posso realisticamente incarnare? Quale forma di eredità immateriale che abbia a che fare proprio con me e con la mia unicità? Ecco che fa capolino l’orizzonte dell’identità, concretata nel Lopachin perturbante, sfaccettato e chiaro-scurale di Lodo, capace di stimolare nello spettatore uno strano e interessante cortocircuito: chi siamo? Cosa siamo in grado di diventare? C’è una battuta di Lopachin che recita: “non bisogna mai dimenticarsi di quello che si è” ecco che al tema identitario si ricongiunge quello della memoria. Sappiamo bene che l’identità trovata ed espressa a pieno, va di pari passo con la felicità, argomento anch’esso cardine attorno a cui ruota lo spettacolo e, Borghesi, ci pone, con la sua scrittura, delle domande aperte: come si fa a essere felici ogni mattina per trent’anni? quando siamo felici? Cos’è che ci rende felici? Siamo più felici nel ricordo del passato o nel disegno del nostro futuro? O nel presente?
A porci queste domande sono Giuliano e Annalisa, felici ogni mattina di quello che sono, avendo poco ma immaginando molto, capaci di creare una magia e un universo attorno alla loro umanità (più che attorno alla loro proprietà), mostrandoci come sia possibile essere una famiglia accogliente anche nelle difficoltà economiche, capaci di aprire la loro casa a un mondo variegato, contraddittorio, vivo, con una tolleranza vera, liberata di ogni cotenna perbenista. Generosi lo sono stati a raccontarsi in pubblico, condividendo la storia di una ferita da poco rimarginata, insieme a dei giovani che hanno pochi anni in più di Martina, loro figlia. L’idea di questo spettacolo era nata in Borghesi, durante un workshop alla Biennale Teatro di Venezia con il famoso drammaturgo inglese Martin Crimp, durante il quale aveva iniziato a interrogarsi su quali fossero a Bologna i luoghi della memoria scomparsi per motivi economici. Avrebbe potuto parlare di altro, ma, va detto, la scrittura di Cechov entra in perfetta assonanza con il suo modo di fare teatro, un teatro magicamente prensile nei confronti della realtà, anti-teatrale, capace di unire l’ironia e l’amarezza della vita ma tuttavia capace di opporsi sempre a quelli che non sperano più nulla dal futuro.
Agnese Doria
Con la sua ultima opera, Il giardino dei ciliegi, Cechov canta la fine di un’epoca. L’aristocrazia decadente e frivola, attaccata a radici secolari, e bloccata nell’idea di palazzi aviti e giardini d’infanzia, viene spazzata via da contadini arricchiti e spregiudicati. Cechov la scrive come una farsa, da ridere. Stanislavskj ne fa una tragedia, da piangere. Il Novecento si apre così, con questa discrasia. Ridere o piangere: ecco lo sgomento di fronte all’albeggiare di un secolo che correrà sempre più forte.
Oggi, se pensiamo a Il giardino dei ciliegi, oltre al testo vien fuori l’archetipo. E il giovane gruppo bolognese Kepler-452 lo capisce molto bene. Il rumore di ieri della scure che abbatte gli alberi può facilmente trasformarsi nel fracasso delle ruspe di oggi. Dramma ecologico, oltreché culturale e umano. Il discorso però si fa ancor più complicato perché, al posto della decadente aristocrazia russa, si racconta della famiglia Bianchi, Giuliano e Annalisa, che per trent’anni hanno vissuto in una casa colonica concessa in comodato d’uso gratuito dal Comune nella periferia di Bologna. In cambio si sono occupati del controllo della popolazione dei piccioni e dell’accoglienza di animali esotici o pericolosi, abbandonati da padroni irresponsabili. Nel 2015, avvicinandosi l’apertura della nuova Fabbrica Italiana Contadina, Fico, il più grande parco a tema agroalimentare del mondo, edificato proprio davanti al loro casolare, arriva lo sfratto. Poi segue la permanenza al residence Galaxy, insieme a decine di famiglie di migranti o di senza casa. Insomma al posto dell’aristocrazia russa adesso c’è una coppia anziana, senza un soldo, che ha vissuto a lungo con un babbuino, un lupo, un boa, una tarantola, un’ara e poi mucche, piccioni, cani, gatti… La loro nobiltà è di altra natura. Giuliano e Annalisa sanno parlare con gli animali. Conoscono tutti i nomi dei fiori, degli alberi, delle piante, degli insetti, delle bestie, È un attimo perché dalla Russia di fine Ottocento si scivoli nell’Antico Testamento. Altro che fattoria degli animali, qui sembra di stare sull’arca di Noè. Non c’è nemmeno la nostalgia per un passato agricolo, il rapporto con la natura appartiene a un’altra era geologica, è quasi preistoria.
La sfida di Kepler-452 è molto alta. Dopo aver costruito con La rivoluzione è facile se sai come farla una sorta di autoritratto generazionale delle aspirazioni e delle frustrazioni di giovani creativi, adesso si sporge su un mondo diverso, marginale, ai confini della città, su un terzo paesaggio, direbbe Gilles Clément. Si sposta il tema, ma si tiene al centro la relazione, cioè il proprio punto di vista in rapporto all’”altro”. Tutto nasce dal desiderio di trovare una realtà più autentica? Di scoprire un luogo dove i conflitti si manifestano con più forza? Sì, sicuramente. Ma c’è anche la sensazione fortissima di vivere in un cambiamento d’epoca radicale, dove le differenze o, come si dice oggi, certe biodiversità (anche bizzarre, estreme, grottesche…) sono condannate a sparire. Kepler-452 si tuffa così nella cosiddetta “realtà” con quella “fame” tipica di una certa scena di questi anni. Poi però arrivano le questioni più difficili, in fin dei conti sempre le stesse: come fare a tornare a galla e raccontare tutto quel che è successo, scegliendo il teatro come medium? Come dare forma adeguata a una materia così viva e complessa?
Nicola Borghesi, Enrico Baraldi, Paola Aiello e Lodo (Lodovico Guenzi) gettano la loro rete con la chiara idea di trattenere quello che sta per scomparire, tirare fuori qualcosa che è già andato a fondo e rischia di essere dimenticato per sempre. A loro modo cercano una storia autentica, ma quando tornano in superficie, dalla rete non esce fuori una storia, ma un intero pezzo di mondo bene aggrovigliato in cento implicazioni differenti. Decidono di tenere tutto, a costo di apparire incongruenti e sbilanciati. D’altronde in questo caso gli esploratori erano fin dal principio solo degli attori, la ricerca “etnografica” si è trasformata presto in amicizia e i soggetti dello studio hanno finito per indossare sulla scena i panni dei protagonisti (lunghe pellicce da freddo siberiano). Il teatro diventa così ibrido e si srotola in un lungo ritratto di città.
Bologna è infatti la vera protagonista con tutte le contraddizioni di oggi. C’è Fico, il turismo, l’ossessione del cibo, gli sgomberi, la speculazione sulla street art, Blu e i murales cancellati. Si fotografa una città in rapido mutamento, mettendo il dito nella piaga: cosa rimane? Cosa scompare? Cosa sta accadendo? (A questo proposito si legga il recentissimo A che punto è la città? Bologna dalle politiche del «buon governo» alle politiche del marketing, Edizioni dell’Asino, 2018).
Lo spettacolo tiene assieme materiali eterogenei, passando dal testo di Cechov da mettere in scena a momenti autobiografici della famiglia Bianchi, a Lodo, che è un ottimo Lopachim, oltre ad essere diventato, dopo il trionfo di Sanremo, un volto noto al grande pubblico. E anche l’essere dentro a un ingranaggio di celebrità entra come materia di riflessione autobiografica e autocritica, con una complicazione crescente dei piani. C’è la recitazione dei non professionisti o “esperti di vita”, come direbbero i Rimini Protokoll, c’è qualche brano cechoviano, ci sono spazi ampi alla recitazione a canovaccio e molti racconti. Si vuol dare voce a chi voce, in questo caso, non ha avuto e allo stesso tempo si vuole fare un resoconto anche dell’esperienza vissuta, con il tentativo perciò di trasmettere sensazioni, di far immaginare allo spettatore il mondo di prima, i fatti salienti. Intanto sulla scena si proiettano video che aiutano a capire il contesto, in mezzo a una scenografia composta dalle autentiche voliere e gabbie, ora rimaste vuote, e il mobilio reale della casa sotto sfratto. Non tutto vive con la medesima forza. A volte il testo di Cechov diventa ombra, altre volte il ritmo rischia di smagliarsi. Non è facile tenere il giusto equilibrio tra la forte personalità della famiglia Bianchi e la dinamicità e il talento dei tre attori. La scena a volte stride, ma si tratta di uno di quei rari casi in cui la vivacità della scena è tale che il disorganico trova piena cittadinanza. Qualche insistenza sulla sincerità dell’esperienza rendono in qualche punto perfino troppo esotica la realtà raccontata. Eppure una certa sfrontatezza e l’ostinata volontà di capire qualcosa in più dei nostri giorni confusi appaiono così autentici e densi di interesse che l’attenzione dello spettatore è tutta tesa a scoprire dove ci vuol portare questo spettacolo, che è un «giardino dei ciliegi», ma anche un ritratto di città e in fin dei conti potrebbe essere pure la storia di un’amicizia.
Rodolfo Sacchettini