Il buio che “si annusa” sul palco di Dom, dentro al teatro a cupola che sta dentro alla sera increspata di lunghi prati e alti condomini del quartiere Pilastro, Bologna, è un buio teso, rumoroso. Precede e poi accompagna per tutta la sua durata lo spettacolo Dentro le cose, quasi a formare un tutt’uno con l’oscurità intermittente della città attorno.
Dentro al teatro a cupola, assistiamo a un processo sinestetico. Fin dal suo arrivo in scena, Febo Del Zozzo si muove infatti di un moto ausiliare, che sempre si trasferisce ad altro ma che soprattutto da altro prende forma e ragione. Nasce da oggetti, o forse sarebbe meglio dire “presenze materiche”, veri e propri monumenti autobiografici. Ci sono infatti i protagonisti delle scenografie di tre precedenti spettacoli del gruppo Laminarie: c'è una sedia che richiama Esagera, performance tratta da I racconti della Kolyma di Salamov, c'è la “colonna infinita” di Brancusi, cui la compagnia ha dedicato un progetto specifico, ci sono elementi naturali, foglie sparse, ci sono il ferro e il legno, l'acqua e il vento, versi di gabbiano e striature musicali, pulviscoli che rimandano al pittore Jackson Pollock, figura al centro di varie proposte sceniche a partire da quella omonima del 2007 (Jackson Pollock. L'azione non agente). Si direbbe una fucina, una bottega d'artista. Ma l’unica volontà è volontà distruttrice, l'ingaggio di una serie di estenuanti corpo a corpo fra materia viva e materia inerte, la formazione di continue “catene cinetiche” fra i muscoli dell'attore e le fibre degli oggetti, che vengono piano piano spogliati della loro funzione (se mai ne hanno posseduta una).
In una crescente furia scenica che si ripercuote sui quattro lati del palco, Del Zozzo assume quasi il ruolo di un “anti-Prometeo”. Aziona le cose, facendole vibrare di una tensione elettrica, elettromagnetica, e le porta sul confine della loro dissoluzione. Tira e smolla delle corde che fanno oscillare violentemente la sedia nel vuoto, trafigge una lastra di metallo, batte un martello al suolo fino allo stremo, si arrampica su una struttura verticale, sparge foglie con l'ausilio di un ventilatore e in tutto questo resta praticamente sempre in penombra, assolutamente concentrato ma al tempo stesso distante, quasi estraneo ai propri atti. Solo in brevi occasioni è sotto il fascio di luce per recitare degli stralci testuali, il cui intento è quello di picchiettare l'aria, più che esprimere dei messaggi. È un teatro di oggetti? Siamo di fronte a uno studio astratto sulle figure e sul movimento? Quello di Dentro le cose non è un teatro di pure forme, tutt'altro. È vero, sul palco si compongono impalpabili traiettorie e armonie sottili, che fanno roteare il nostro sguardo in cerca di un senso, di un “quadro” estetico. Ma si rotea invano, poiché non c'è disegno né promessa. C'è al contrario il tentativo di un'impossibile messa a fuoco, la ricerca di una sensazione inafferrabile se non per momenti piccoli, transitori: precisamente, una strana e chimerica sensazione di precedere la sensorialità stessa, di essere omologhi eppure diversi dalle cose che ci circondano.
Febo Del Zozzo, nel suo essere “dentro le cose” ma fuori da sé e dal suo personaggio, si rapporta agli oggetti con una prossimità feroce e profonda, che è però anche ascetica. Quando si avvicina alla sedia, alla lastra metallica, alla colonna infinita, quando “agisce” tali presenze materiche fino al limite delle proprie e delle loro forze, le assume comunque come dati di fatto. Sa di poterle distruggere, ma non mutare nella loro essenza. In questo, lo spettacolo di Laminarie è allora anche il racconto di un fallimento: il racconto dell’impossibilità di emancipare gli oggetti sul palco dal loro ruolo scenografico, senza soccombere a una alterità e una distanza incomunicabili. Una mistica delle idee, non dell'abbandono, tesa a mostrare come l'atto o il gesto creativo si producano nel punto di tenue disequilibrio fra noi e il mondo, fra l'esser-ci e l'essere altro. E che, proprio in virtù di tale tensione, insegue un approccio scenico altrettanto strano e chimerico quanto la sensazione che lo accompagna: quello di un teatro che, in qualche modo e forse solo ipoteticamente, preceda infine la teatralità.