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Countdown to extinction. Dies Irae di Teatro Sotterraneo hello
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Su un fondo asettico si muovono quattro figure in tuta bianca, che ricordano le tenute anticontaminazione di tanti film catastrofici sfornati dal cinema degli ultimi anni. Mimano dei massacri, sgozzamenti, estirpazione di arti, sbudellamenti, ma il loro gesto produce un segno visibile: uno schizzo di sangue che dilania il bianco della scena. Il sangue è vernice, e lo è manifestamente: con un erogatore, una delle figure crea l’effetto dello spruzzo in sincrono con gli squartamenti. Inizia così Dies irae – 5 episodi intorno alla fine della specie, l’ultima fatica di Teatro Sotterraneo, che ha debuttato a Modena per il festival Vie. Titolo altisonante per un lavoro che mescola minimalismo e tratti di forte ironia, come è tradizione per questa formazione fiorentina. Ma il contrasto sembra quantomai ricercato, perché il primo episodio introduce l’apocalisse parlandoci del rapporto ammiccante che l’arte ha intrecciato con la violenza (causa-effetto della sua crescente difficoltà nel “dire” il mondo, secondo la parabola tracciata da Scarpellini nel recente L’Angelo rovesciato). Il rallenty di alcune sequenze, i colpi da arte marziale alla Matrix, fanno sembrare il tutto una versione unplugged di un film di Tarantino; ma la violenza, per quanto stilizzata, arriva ed è reale, come le urla strazianti sul finale. Il cortocircuito tra realtà e rappresentazione, che ci mantiene freddi davanti al massacro quotidiano di cui sono fatti i tempi di enduring freedom, che non ci permette di distinguere il vero dal falso né di soffrire del dolore se non ha avuto una adeguata post-produzione, è già un po’ la fine della nostra specie (almeno come specie solidale). L’arte, per non essere da meno della realtà, esibisce la violenza e né fa un gesto estetico; peccato che in questo processo non sia immune da una seduzione che fa cadere nell’indistinto il confine tra critica e adesione. Se Stockhausen ha definito scandalosamente l'11 settembre come la più grande opera d’arte mai realizzata, è giusto allora che il Teatro Sotterraneo firmi gli schizzi prodotti sullo sfondo bianco come si trattasse di un quadro di Pollock.
Queste variazioni sul tema del nichilismo odierno, scandite come un ossimoro dalle tante versioni di una canzone che sa di invocazione (Hallelujah di Leonard Cohen), proseguono attraversando alcuni rovelli ricorrenti della creazione contemporanea, come il rapporto interattivo col pubblico, che tratteggia l’ombra piuttosto sinistra di una democrazia dove l’unica partecipazione possibile è quella del televoto e del gioco a premi, una democrazia svuotata del suo potenziale quanto lo sono a teatro i termini “avanguardia” e “rottura della quarta parete”. Uno spettro di libertà tanto ridotto da porti davanti la scivolosa alternativa proposta al pubblico di uccidere Hitler in fasce (quindi, fino a quel momento, un “innocente”) o di lasciarlo vivere. Nella consapevolezza, prospettata da un ascoltatore del gioco, che cancellando il nazismo dalla storia scomparirebbero capolavori dell’arte e della filosofia che a partire dalla Shoah sono stati scritti. Effimera gloria è quella dell'arte, e in generale di tutti gli sforzi che fa l’uomo nel tentativo di superare i limiti del tempo e sconfiggere la morte: nell’asta a ribasso del quarto episodio, dove si svendono le sette meraviglie del mondo moderno, si ricorda giustamente che di quelle del mondo antico restano solo le piramidi. Ma anche quelle attuali, dal Colosseo al Taj Mahal, non sono che (futuri) mucchi di polvere che il presentatore estrae da un cassetto e rovescia per terra. Su questo paesaggio in rovina, che ha visto l’arte abdicare al suo tentativo di dire e dicendo contrastare la morte, fino a trasformarsi in una sorta di maestro di cerimonie del nichilismo del contemporaneo, non resta che spargere il sale – come puntualmente avviene nell’ultimo episodio.
Con Dies irae il Teatro Sotterraneo, pur mantenendo la sua cifra caratteristica, fatta di quadri rapidissimi – quasi delle strips – di ironia fulminea e minimalismo surreale ed elegante, affronta per la prima volta un tema unico e in modo frontale, cercando una coesione drammaturgica mai sperimentata prima da questa formazione, anche a scapito della comicità immediata che caratterizzava i loro lavori precedenti. In questi cinque episodi intorno alla fine della specie si ride meno, cercando di dire di più: cosa? Che il tempo a disposizione non è più molto. Il cronometro che sovrasta la scena, che compie un conto alla rovescia a scandire i sessanta minuti (netti) della durata dello spettacolo, ce lo ricordano. «Countdown to extinction», urlavano i Megadeth già agli albori degli anni Novanta. Ma la rabbia di quell’urlo è scomparsa; quello che resta è l’ambigua risata dell’arte, che si fa più godibile, leggera, friabile. E ci seppellirà.

di Graziano Graziani


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