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La distruzione della Torre Eiffel di Jeton Neziraj hello
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Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un'altra Europa



Orfeo, il cui mito attraversa in trasparenza le vicende de La distruzione della Torre Eiffel (spettacolo che sarà in scena il 19 marzo ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce, dove l'autore terrà anche un workshop di drammaturgia), viene spesso raffigurato in cima a una rupe. Così il sultano Osman, uno dei numerosi personaggi del testo del drammaturgo kosovaro Jeton Neziraj (conosciuto in Italia per Qualcuno volò sul nido del Kosovo), si ritrova sull'orlo di un burrone a rinnegare Dio e la missione che questi gli ha affidato per amore di una donna, anzi per amore del suo sguardo. «Sono venuto qui per morire – dice – voglio morire perché Allah mi ha messo di fronte a una sfida troppo grande che non riesco a superare. In basso c'è la fossa dei serpenti e oltre la fossa si trova Lei, i suoi occhi mi attraggono, questa è la fossa della morte e anche i suoi occhi sono gli occhi della morte. Quale morte devo scegliere?». Partito per far indossare il velo a tutte le popolazioni della terra, Osman vacillerà nel proprio compito dopo aver incontrato la giovane Maria, che posava nella bottega di un pittore.

Sono appunto gli interrogativi relativi al “vedere” e al “mostrar(si)” a dominare questa agile pièce, tradotta dall'albanese da Monica Genesin e Giancarla Carboni con la supervisione letteraria di Anna Maria Monteverdi ed edita dalla Cut-Up, che ha quasi il sapore di un pamphlet satirico tanti ed espliciti sono i suoi riferimenti all'attualità politica. Come mettere in scena quello che è sempre più percepito come “baratro dell'immaginario”, vale a dire il terrorismo di matrice islamica nell'apparente imperscrutabilità delle sue motivazioni ultime?
Neziraj sceglie una via abbastanza “classica”: dopo aver epurato il tema da qualsiasi patetismo o da elementi eccessivamente drammatici, compone una sorta di “commedia a incastro” in cui vari binari narrativi si alternano al ritmo di brevi quadretti scenici che fanno dell'ironia il loro registro principale. Da una parte, la relazione fra due venditori ambulanti, Josè e Aisha. Quest'ultima, spinta da un sogno ricorrente, deciderà di indossare il velo e abbandonare Josè, che la cercherà ininterrottamente in mezzo alle donne musulmane della capitale francese, scoprendo loro il capo. Proprio per tale motivo Ghalib e Abhib, militanti nell'organizzazione “Giustizia per l'Islam”, lo rapiranno  costringendolo a registrare un videomessaggio alla nazione in cui, assieme al suo gesto, condanna anche le politiche integrative dello Stato. Dall'altra, come accennato in precedenza, il piano del sogno e della leggenda: il giovane sultano Osman si imbarca nell'impresa di sottomettere tutte «le genti della terra» e far portare loro il velo per «coprire le vergogne dell'umanità». Ma, dopo aver ordinato a un pittore (cieco) di coprire anche il volto di Maria, la modella di cui stava realizzando un ritratto, si pente perché se n'è innamorato e non riesce più a ricordare il suo sguardo per trovarla fra la folla.
In mezzo, riferimenti alla legge sui costumi religiosi d'oltralpe e alla proibizione di costruire minareti in Svizzera nonché episodi meta-teatrali o meta-artistici: quello appena citato del pittore, certamente, o Ghalib e Abhib che assistono a uno spettacolo in cui l'attrice che impersona un personaggio musulmano si spoglia per entrare in vasca. Perché, come dicevamo, è nella “rappresentazione” che risiede il problema di fondo. I due militanti che rapiscono Josè non cessano di chiedersi «come ci rappresentano?», «cosa dicono di noi?», in una insistita riproposizione della divisione Noi/Loro funzionale a scardinare luoghi comuni della retorica dominante («- e chi sarebbero questi musulmani moderati secondo loro? - i musulmani pecora, quelli che se ne fottono dell'Islam», o al contrario «- questa torre che pende... c'è molta gente che tutto quello che è fatto qui è assolutamente perfetto – nulla è perfetto qui»).

Nel documentario sulla scena kosovara Nuovo teatro in Kosovo, curato dalla stessa Monteverdi, Neziraj dice che «il teatro è fatto per buttare sale nelle ferite perché si cauterizzino meglio». Si tratta di una concezione diffusa nell'area balcanica, in cui l'arte è spesso il luogo privilegiato per una problematizzazione del passato e dove il gioco di maschere del teatro diventa “rito politico” attraverso il quale evocare questioni identitarie più ampie. Nel caso del drammaturgo kosovaro, tale attitudine non è stata indolore: nel 2011 ha perso la sua posizione di direttore artistico del Teatro Nazionale per la sua collaborazione all'antologia di testi Da Prishtina, con amore / Da Belgrado, con amore. Inoltre, è fondatore dell'associazione “Qendra multimedia”, dedicata alle arti performative, che cerca di porsi in una posizione critica nei confronti tanto della retorica nazionalista quanto delle subdole ma martellanti influenze esterne, perlopiù statunitensi. Non stupisce dunque che il suo sia un atteggiamento assolutamente diretto verso il materiale trattato. Anche nei momenti più lirici, è come se si cercasse di eliminare qualsiasi sfumatura emozionale, qualsiasi ambiguità di significato in favore di una rassegna vivida e schietta di stati “minimi” d'animo e di pensiero. Non ci sono, ne La distruzione della Torre Eiffel, personaggi a tutto tondo ma soltanto tipi, o meglio, “intensità singolari” , ciascuna delle quali si ricollega in maniera abbastanza netta a tematiche comuni quando si parla di terrorismo (la paura, la spirale d'odio, l'islam moderato, il razzismo strisciante, la condizione femminile, la Fede, servizi segreti e tortura...). La complessità e profondità dell'opera risiedono tutte nella struttura. Complice anche la sovrapposizione attoriale (spesso allo stesso attore è affidato più di un ruolo), infatti, la molteplicità dei piani narrativi può essere letta come molteplicità di livelli interpretativi che convivono e si confondono all'interno di un generico individuo posto di fronte a eventi di questo tipo. Si accumulano storia e leggenda, religione – nel suo insieme di quotidianità di culti e costumi ed epicità dei suoi miti fondativi – e politica – col suo intreccio di leggi e decisioni ufficiali e di trame e interessi sotterranei, iconografia e sogno. E, soprattutto, l'amore – verso Dio, una donna, i propri figli, la bellezza – che fa capolino in tutti gli episodi ma è sempre ostacolato da “veli”, reali e metaforici, che impediscono di riconoscere con certezza l'oggetto desiderato.
Com'è noto, Orfeo perde per la seconda volta Euridice perché non resiste alla tentazione di voltarsi a guardarla mentre escono dagli inferi. E, nonostante le differenti versioni del mito che si sono succedute, questa è innanzitutto la contravvenzione di una proibizione propriamente religiosa. La vista degli dei è infatti preclusa all'uomo così come non è concesso disturbare il silenzio dei morti. Eppure, per Ovidio, nel cedere alla tentazione (ovvero nell'infrangere una sacra proibizione) da parte di Orfeo risiede un miracolo di coraggio e amore ancora più significativo della perdita dell'amata, di cui pure quest'ultima è consapevole.
In un momento in cui la proliferazione di immagini sul terrorismo diventa parte della strategia terroristica stessa, il teatro si trova di fronte a un empasse. Anche a questo alludono i veli e le “mancate visioni” disseminate da Neziraj per tutto il testo, come a dire che nonostante la volontà della scena di “voltarsi a guardare contro il divieto” ci riesce comunque impossibile raffigurare veramente ciò che più ci attanaglia. La distruzione della Torre Eiffel infatti alla fine non “mostra”, non azzarda immagini esplicite e frontali, resta sulla soglia dell'Irrappresentabile. Ma – altro gesto arcaicamente blasfemo – chiama le cose col loro nome, ed è già un inizio.


di Francesco Brusa
 

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