Angela Malfitano è presente nel Focus con diversi lavori, che l’artista abita assecondando ruoli differenti. Nella conversazione che segue siamo partiti da La regina degli elfi ma siamo arrivati a discutere di messa in scena, di scrittura, di recitazione.
Il palcoscenico
Il palcoscenico è un luogo da cui vorresti scappare, ma dove si va, poi? In che modo desideriamo – noi attori – rompere questo assillo, questo obbligo del palcoscenico, pur amandolo da morire? Elfriede Jelinek è qualcuno a cui ti affidi senza remore, perché sai che con lei non c’è alcun rischio di enfasi o retorica. Sai che riesce sempre a far parlare il teatro con qualcosa di nuovo, perché va costantemente e ferocemente contro le sue tradizioni e le sue strutture drammaturgiche, stravolgendole dall’interno, cercando di far uscire il teatro dai codici in cui tende a chiudersi. È oltre: rappresenta una rottura nei confronti del passato e del presente. Per questo come attore sei costretto a fare un passo indietro, a mettere in discussione il tuo ruolo.
Ne La regina degli elfi l’azione si compie dentro una bara, sorretta prima da figure umane (sei portantini), poi adagiata su un catafalco al centro della sala. Tale, semplice, operazione scava nei meccanismi teatrali in maniera unica e diventa una liberazione: già senti di aver risolto molti problemi di rapporto con lo spazio e con lo sviluppo della messa in scena. Proprio questa immagine – una vecchia attrice che, nel giorno del suo funerale, parla al suo pubblico in una cassa da morto e distribuisce pezzi della sua carne – mi ha folgorato nel momento in cui cercavo un omaggio per il mio maestro, Leo de Berardinis [nell’ambito del progetto Molti pensieri vogliono restare comete, tenutosi nel giugno-luglio 2009 presso l’ex-caserma “Sani” a Bologna]. Sentivo che era qualcosa di perfettamente aderente a ciò che hanno significato, per me e per Leo, il teatro e la vita per il teatro. In più c’è una riflessione profonda, sorretta da un linguaggio caustico e ironico, sul potere dell’attore e sul rapporto di quest’ultimo con poteri “superiori”, più forti e occulti. In generale, sul suo ruolo “politico”, inteso nell’accezione più nobile di relazione con una polis, con una comunità.
L’attore
L’attore è una figura sacerdotale, portatore di un Oltre con la “o” maiuscola. Secondo Duvignaud (Sociologia dell’attore), rappresenta l’anello mancante fra la comunità e il mistero: me lo immagino con una mano tesa verso il pubblico e una verso il cielo, l’ignoto. Ecco perché da una parte ti compra e ti muove come un burattino ma dall’altra ha la capacità di toccare sentimenti profondi, di – detto banalmente – “fare del bene”. Il testo della Jelinek attraversa questa contraddizione. Paula Wessely era un’attrice importante e carismatica che, però, recitò in film di propaganda nazista senza dover mai fare veramente i conti con tale scelta; anzi, muore ricevendo tutti gli onori del caso da parte di una società che, allo stesso modo, non ha mai fatto ammenda della propria adesione al nazionalsocialismo. Un po’ come la società austriaca, secondo la Jelinek. È chiaro che la sua figura viene brutalmente disgregata nella pièce, assumendo anche connotati grotteschi, eppure conserva alcuni elementi di fascino e grandezza, che ne restituiscono la dimensione di attrice capace e appassionata (sebbene, secondo alcune valutazioni storiche, magari troppo sdolcinata ed enfatica). Dove sta allora il crinale, la linea di demarcazione in base a cui giudicare il potere dell’attore? Probabilmente, tornando alla riflessione precedente, sta nella sua consapevolezza politica e culturale di compiere un’azione artistica mirata all’evoluzione dell’animo e del cervello umani, attraverso quella “poesia incarnata” che egli stesso rappresenta. Questo è il senso della responsabilità dell’attore nei confronti del pubblico, che Leo ha continuamente scandagliato e che ne La regina degli elfi emerge violentemente come dilemma e snodo fondamentale di tutta l’arte teatrale.
La scrittura
Tuttavia tale ragionamento sarebbe debole se non fosse accompagnato dalla sperimentazione formale e linguistica di cui parlavo prima. L’intreccio perfetto fra cronaca, storia e mitologia si svolge all’interno di lunghi monologhi, apparentemente irrappresentabili e che, pertanto, chiedono all’attore di ritrarsi dalla sua arte recitativa. Al contrario, per non esaurire completamente il senso dei testi della Jelinek occorre inserirsi in una dialettica incessante di comprensione e assorbimento. Se alcuni riferimenti sono chiari e immediatamente intellegibili da un punto di vista razionale, l’insieme delle parole costituisce invece un flusso onnipervasivo da cui devi farti condurre senza remore. Ecco allora che col tempo, dopo averli letti più volte a voce alta, diventano nitidi e ci si accorge di come il loro andamento sia estremamente rigoroso. La comprensione della scrittura della Jelinek procede a macchia di leopardo: ogni tanto si ricavano informazioni precise sul contesto e sui vari livelli di significato che vengono messi in gioco. Parallelamente, avviene un processo di assorbimento di termini e costruzioni che inviano qualcos’altro, impossibile da capire subito, al pubblico e all’anima dell’attore che li assimila.
Questo qualcos’altro è appunto il mistero da cui farsi attraversare con i suoi testi, grazie al quale ricevi finalmente delle intuizioni su cui appoggiarti per poi “svoltare” con la tua arte. Si tratta di un incontro emblematico e intenso perché investe allo stesso tempo teatro, società e vivere quotidiano. Nella mia messa in scena si mescolano infatti immagini storiche delle adunate naziste con altre più “triviali” legate allo sport, alle vacanze, a quell’immaginario dell'Austria Felix che la stessa Wessely ha incarnato dopo gli anni Cinquanta. La pratica dell’attore è infatti la più vicina, dal punto di vista performativo, alla quotidianità: parte dai gesti che gli esseri umani compiono ogni giorno, salvo poi trasfigurarli sul palcoscenico ed elevarli al cubo. Ed è proprio in tale trasfigurazione che si giocano la consapevolezza dell’attore e, di conseguenza, il valore della sua arte, che si muove, ricorda la Jelinek, su «tavole di legno che rappresentano il mondo ma che fortunatamente non lo sono».