Al posto di Eugene Onegin, che nell'incipit dell’omonimo poema viene presentato mentre accorre al capezzale dello zio, il primo personaggio a palesarsi sulla scena di Onegin. Commentaries di Alvis Hermanis è un arruffato quanto singolare Alexander Puškin. Fra gli arredi di un elegante interno del XIX secolo, lo scrittore si agita e rimbalza da una parte all'altra del palco, imitando in tutto e per tutto il comportamento di una scimmia.
L'istantanea che si offre allo spettatore è suggestiva: appollaiato su scaffali ricolmi di letteratura, il celebre poeta russo ci parla ora con altri versi, quelli di un animale bizzoso e isterico, mosso da impulsi tutt'altro che lirici. La trivialità, così come la pesante concretezza del quotidiano, il dato biografico nudo e frammentario, sembrano essere gli elementi con cui Hermanis vuole condurci all'interno di una società legata a valori a noi ormai desueti e oscuri. Una dopo l'altra, le figure che compongono l'intreccio del libro fanno la loro comparsa, ognuna col suo carico di informazioni extra-letterarie, che vengono esposte al pubblico senza alcun accento emotivo. I personaggi sono, in realtà, didascalie di se stessi, strani ibridi attoriali che agiscono su un doppio piano di trasparenza: al fatto di essere presi in una trama che li sovrasta aggiungono quello di riconoscersi in quanto oggetti di studio filologico. Fissi sul limitare del testo, se vi si immergono è solo per pochi attimi, con una recitazione che pare abbozzata, di circostanza, volta a denotare più che a connotare; se, invece, cessano di abitarlo, lo fanno in funzione di un'archeologia spicciola, costantemente ancorata nei pressi dei suoi scavi. Il regista, dunque, dispiega in scena un'enorme potenzialità narrativa per poi circoscriverla in una strettoia contestuale che non lascia spazio a salti o ascese del concetto. Allestisce una molteplicità di livelli ma non la stratifica, semplicemente la stira e la sfilaccia in lunghezza. La stessa scenografia, d'altronde, riflette questo principio di composizione: i mobili e le decorazioni formano un tutto-pieno in cui i gesti degli attori, potendo svilupparsi solo in orizzontale, non possiedono alcuna profondità, ma permangono in un'atmosfera cristallizzata che ricorda quella della pittura bizantina. Tale scelta, che per certi versi può essere considerata un interessante tentativo di porre sul medesimo piano il maggior numero di chiavi d'accesso all'opera, per altri rischia di sfociare nell'esaustività sterile di un'aneddotica che stenta a farsi storia.
Hermanis, coscientemente, evita qualsiasi dinamismo, in favore di un approccio analitico che costruisce il senso dello spettacolo attraverso un graduale accumulo di informazioni. Ma, a discapito del titolo, gli stralci d'erudizione, di cui fanno sfoggio i protagonisti, non riescono a produrre nessun “commento” degno di questo nome, poiché l'eccessiva completezza diventa un inventario asfittico, in cui manca la latenza necessaria per il defluire della nozione in idea. Tutto ciò sottende forse una visione approssimativa (e pericolosa) dell'ispirazione artistica, secondo cui un'opera letteraria è il mero risultato della somma di circostanze e intenzioni, di un atto razionale di cui è possibile rintracciare con esattezza la genesi. L'autore, insomma, sembra condividere con certi pedanti maestri, dai quali egli stesso dichiara di volersi discostare, l'illusione che conoscere sia sufficiente per apprezzare, che il semplice sapere basti al pensiero, dimenticando che l'arte – e l'emozione, da cui probabilmente l'arte non può prescindere – nascono sempre in quella zona umbratile del non-detto e del non-pensato, di cui nel suo spettacolo non vi è traccia.