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I fiori blu. Un reportage teatrale dal "Maidan" moldavo hello
Published Date: 0000-00-00 00:00:00
A settembre 2015 è scoppiata a Chişinau (Moldavia) una protesta dalle dimensioni e dalla durata inaspettate, che ha riempito per mesi la piazza principale della città e attirato molta dell'attenzione internazionale sulla piccola repubblica est-europea. Ci è sembrato un momento fecondo per (ri)porsi alcune domande sul teatro, per osservare se e come la scena locale (che stiamo provando a raccontare da un po') avesse reagito a un evento socio-politico di vasta portata. Ma soprattutto – con intento assolutamente autocritico – ci è sembrata un'occasione unica (data la particolarità del contesto) per mettere alla prova dei fatti tanti discorsi sulla possibile valenza politica del teatro e sul ruolo che esso dovrebbe avere nella contemporaneità.

Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un'altra Europa.


Piata Marii Adunari Nationale, Chişinau (foto F.Brusa)

Dispacci arbitrari

Chişinau, capitale della Moldavia, 6 settembre 2015, ore 12. In seguito a un furto dalle casse dello Stato pari al 12 per cento del PIL nazionale, che fa traboccare il vaso di un malcontento sociale ormai diffuso da tempo, 100.000 persone si riversano nella piazza principale della città di fronte al Palazzo del Governo. È la manifestazione più grossa che il Paese abbia conosciuto dall'indipendenza a oggi. E, si scopre in seguito, è anche la più duratura. Al termine della “grande adunata” vengono installate nel luogo della protesta una quarantina di tende, che promettono di non andarsene finché «il governo non rassegnerà le dimissioni». Stando a quello che recitano i cartelli, molte persone arrivano dai villaggi, decise a rivendicare il proprio posto in una politica che tende a escluderli dallo sviluppo. Tanti altri sono anziani, ad affacciarsi sul cambio di una società che non li rispecchia più, o uomini di mezza età, spesso veterani di guerra, col ferito orgoglio di un sacrificio che sentono tradito. Al centro un palco su cui si alternano discorsi, letture di poesie, dirette tv. Poco più a lato, addirittura una piccola area ristoro e una sorta di “ufficio” che gestisce l'entrata di nuovi manifestanti e la disposizione delle tende.
Ancora oggi, questa “cittadella del dissenso” occupa la piazza mentre nell'edificio di fronte si sta consumando da qualche settimana una crisi di governo, in bilico fra presagio del crollo e annunci di ricostruzione.

10 settembre, ore 20. A circa 800 metri dalla piazza, il piccolo teatro indipendente Spalatorie mette in scena Fiction. La sala in cui avviene la rappresentazione contiene una cinquantina di persone, prevalentemente giovani, molti dei quali sappiamo frequentare spesso la struttura (che ospita eventi di varia natura, non solo teatrale). Un gracile ma vivo circolo alternativo, che si alimenta della consapevolezza di essere diverso e marginale. Si parla, come è consueto nella vocazione politica di questo spazio, della società moldava con piglio ironico e critico. Le luci si spengono in sala.

10 settembre, ore 20. La notte della protesta è invece perfettamente illuminata da numerosi fari, che “vegliano” sulle voci dei manifestanti. Gli slogan parlano di un “vero popolo moldavo” riunito contro la classe politica corrotta. Il discorso identitario è forte, aleggia continuamente fra le urla, nei comizi dal palco e sopra i cartelli. Non si tratta di un atteggiamento populista per guadagnare maggiore consenso, né di una latente tendenza nazionalista. Al contrario, è come se si ricercasse di riportare le lancette all'ora zero per costruire una nuova origine comune. Adesso anche i giovani si fanno avanti, cantando, stringendosi nelle bandiere, in attesa di una marcia degli eventi.

Ore 20.30. «Moldova is my fatherland» esclama uno dei quattro attori sul palco di Spalatorie, seduto su una sedia e rivolto con aria rassicurante verso il pubblico. Nel frattempo, un altro attore si alza e si posiziona al centro della scena. «It is the cradle where I heard he sweet ballad of the Romanian language», continua il primo mentre il secondo porta una mano in direzione dei genitali. «It is the bunch of grapes in which sites of exquisite beauty are reflected», e l'attore in piedi inizia a mimare un atto masturbatorio. «Moldova is my place, I was born here, I live here» e i crescendo di parole patriottiche e gesti dissacranti si confondono fino al parossismo finale.

Ore 20.30. La piazza celebra la propria coesione e l'espressione del dissenso (se così si può ancora chiamare) inizia ad assumere forme ben diverse dai comizi e dagli slogan delle prime giornate. Sul placo salgono quattro ragazzi che imbastiscono una sorta di spettacolo di satira, con espliciti riferimenti alle personalità politiche contro cui si protesta. È il primo dei tanti momenti vicini all'intrattenimento che si susseguiranno in piazza. C'è una vera e propria “macchina organizzativa” che sembra non lasciare mai soli i manifestanti. A qualunque ora del giorno si passi, l'impressione è che la folla dei partecipanti assomigli sempre più a un pubblico, cui vengono indirizzate varie offerte: musica, poesie celebrative, “riviste” satiriche... C'è la condivisione di uno spazio e di un tempo nuovi ma i limiti di tale condivisone sembrano ben tracciati dall'esterno.

Ore 21. Dopo aver dissezionato alcuni “costumi” moldavi (l'attaccamento ai valori religiosi, il mito di cercar fortuna all'estero per riscattare la propria posizione sociale, il lavoro nero per arrotondare...) e averne fatto banco di prova per un'ironia tagliente e feroce, il collettivo di Spalatorie riavvolge il filo del proprio discorso riconducendolo al teatro. «Fiction is not the opposite of reality. Fiction is when I am on stage», dice uno degli attori. E poi giù di nuovo verso la società, a ribadire che l'intreccio di realtà e finzione di cui è intessuto il teatro si risolve sempre in critica dell'esistente: «If each sentence that I say builds a fiction, this means that each sentence takes me further from what I was and brings me closer to the carachter that you're building. If you think this refers only to theater, you're mistaken».


Teatru Spalatorie, Fictiune (foto di Teatru Spaltorie)

13 settembre, ore 12. Viene indetta un'altra manifestazione generale e ulteriore folla si riversa di fronte al Palazzo del Governo. Non si replica la partecipazione della prima giornata, ma si percepisce che l'inerzia è ancora dalla parte della piazza. Più persone decidono di fermarsi alla “acampada”, altre danno un supporto anche economico (viene indetta una raccolta fondi affinché l'occupazione possa resistere il più a lungo possibile). Ma si intravedono alcune fratture: se la protesta ha ricevuto un sostegno trasversale, essa si connota come esplicitamente vicina ai partiti e ai movimenti cosiddetti “filoeuropeisti” (per quanto imprecisa e di comodo sia poi nella pratica questa definizione). Tant'è che qualche giorno più avanti si assisterà al nascere di una seconda “acampada” guidata da esponenti politici dell'opposizione filorussa, che ancora oggi staziona di fronte al Parlamento. A un occhio esterno, suggestionato forse anche dalla vicinanza geografica, la situazione sembra riportare al “Maidan” ucraino. La tensione non è certo alta – e si apre anche uno sprazzo di dialogo con i rappresentanti del governo – ma analogie e richiami, sia politici che estetici, instillano comunque il dubbio che un improvviso quanto tragico mutare degli eventi sia sempre in agguato.

13 settembre, ore 18. Mentre parte della massa dei manifestanti inizia a diradarsi, un ben più piccolo gruppo di persone affluisce al teatro Ionesco, situato sul lungo viale che conduce alla piazza. Va in scena Waiting in the margins del coreografo olandese Benno Voorham. Si tratta di un progetto che coinvolge rifugiati da diversi paesi, come l'Ucraina appunto, da dove stanno arrivando sul territorio moldavo sempre più persone in fuga dai conflitti separatisti.
In una scenografia minimale i danzatori compiono gesti posati e lineari. È un approccio al movimento molto concettuale, da cui traspare una dimensione emozionale intensa benché sussurrata. Vuoi anche per la particolare natura dello spettacolo, fa capolino una sensazione di delicatezza, di soffusa “cura dell'essere” che permea qualsiasi elemento sul palco. Un teatro che trova la propria ragione nello smussare gli angoli, nell'infondere fragili e abbozzate armonie dentro le asperità.
Si tratta di una proposta insolita per la struttura, che propone per lo più una stagione di prosa novecentesca. La platea è infatti mezza vuota ma ciò consente che si crei un'atmosfera intima e raccolta, da cui scaturisce a seguire della performance uno scambio fra artisti e pubblico. «Non so con quale lingua cominciare il mio intervento» dice uno degli spettatori e, passando dall'inglese al russo, dal rumeno all'arabo, racconta della fatica di dover reinventarsi sempre nuove radici, e di come vedere riflessa tale fatica in scena fosse per lui toccante.
È uno strano circolo che, seppur tramite pensieri lambiccati, dalla (geo)politica si riversa nel teatro. Non è assurdo pensare che la Moldavia (che ha tra l'altro al suo interno uno stato indipendente di fatto non riconosciuto) possa subire sorti simili a quelle dell'Ucraina. Fatti come le proteste di questi giorni rischiano sempre di scivolare nell'accelerazione di processi divisivi o nell'innesco di reazioni esterne. Che il teatro possa farsi “rifugio” per chi fugge da tali dinamiche, in un contesto dove la possibilità di queste ultime è palpabile, rende la domanda di senso di tali operazioni artistiche ancora più urgente nonché ambigua. Una domanda di senso che invita il pensiero ad andare verso il fuori, a interrogare ancora una volta quella “terra di mezzo” che separa la società dal teatro, pur unendoli sotterraneamente.

Il buon ribelle

...dobbiamo prepararci a vivere in un tempo diverso da quello che ha segnato le vite dei nostri padri e nonni, un tempo che non ha un’unica direzione, o una destinazione prefissata, ma che accade e insieme collassa, che si mostra e si sottrae. L’Homo seditiosus è il campione di una umanità che scende in piazza oggi per realizzare “un’arte senza opera” che evoca il fantasma del dopodomani.
(Marco Belpoliti, Enrico Manera, 
Addio Rivoluzione, è tempo di Rivolta)

Dove conduce questo arbitrario resoconto dei fatti? È possibile supporre un significato, che vada oltre la contingenza, nella simultaneità di eventi teatrali – che hanno l'andamento della routine – ed eventi politici – che lambiscono invece la portata storica (almeno nel loro contesto) - ? Inoltre, è lecito pretendere che i primi vengano toccati dai secondi e se ne facciano in qualche modo carico?
Innanzitutto è forse utile rinvenire alcune suggestioni. Non si tratta di una protesta spontanea, non totalmente. Il movimento civile che la guida e la sostiene (Verità e Giustizia) è esplicitamente legato ad alcuni deputati membri degli stessi partiti al governo, nonché a un'emittente televisiva (Journal TV), i cui proprietari sono indirettamente implicati nelle vicende politiche del paese. C'è dunque, come si accennava in precedenza, una vera e propria “macchina” organizzativa, alimentata certamente da ingenti mezzi finanziari. E c'è, sfiorando spesso anche forme di spettacolo puro, un'incessante offerta di stimoli per chi dovesse passare o sostare dalla piazza. Concerti, letture di poesie, “comizi satirici” in una quantità impressionante se si pensa che avviene sette giorni su sette. Fino a che punto si spinge la “funzionalità” di tutto questo? Fino a che punto l'amplificazione, minuziosamente strutturata, delle istanze inficia la genuinità della partecipazione?


Il palco della protesta (foto F.Brusa)

Primo, piccolo e banale tassello, allora: il teatro contro l'intrattenimento. Non ci si stancherà mai di ripetere come la presenza di modalità di intrattenimento, in qualsiasi contesto esse vengano rilevate, debba far scattare dei campanelli d'allarme. Esse rappresentano infatti potenziali chiusure, gabbie di sicurezza che appunto “trattengono dentro” l'esodo spontaneo di energie e discorsi. Ma, soprattutto, pongono il soggetto che vi assiste in una posizione di confortante equilibrio (potremmo dire in una “condizione attivo-passiva” con le parole di Zizek) fra l'autonomia delle proprie convinzioni e l'essere parte di un “noi” più grande e coeso, con la conseguenza che ogni condotta di azione o di pensiero si ritrova già incanalata in binari precisi, pur illudendosi di essere libera. Detto altrimenti, l'intrattenimento costituisce il rischio della negazione di qualsivoglia atteggiamento (auto)critico. E ciò vale per ciascun polo delle “situazioni relazionali” che stiamo cercando di analizzare. La promozione del dissenso (la protesta) o l'offerta estetica (lo spettacolo teatrale) che utilizzino l'intrattenimento come mezzo, sino a renderlo la propria cifra caratteristica, intendono scongiurare la possibilità del fallimento ma così facendo chiudono inesorabilmente le porte a un “successo” (nel senso più lato del termine) che non sia soltanto di facciata. Chi sceglie di calarsi nella condizione di spettatore o partecipante crede che la propria presenza e le proprie istanze abbiano un peso, ma le ritrova perennemente schiacciate in un circolo dove non esiste verticalità alcuna che possa metterle in contatto con quelle dimensioni cui almeno idealmente si indirizzano.
Ciò apre una seconda questione, anch'essa immediata: di quali soggetti stiamo parlando nel nostro rimpallare fra teatro e piazza? Mentre da una parte viene “elargita” un'identità, che con l'appellativo di “popolo moldavo” riunisce la folla dei manifestanti, dall'altra quella stessa identità viene sottoposta alla disamina di un'ironia caustica e feroce (Spalatorie). È segno del classico ruolo del teatro nello smascherare la retorica, nell'andare contro la corrente dei discorsi maggioritari. Ma, scavando più a fondo, è anche segno della tendenza intrinseca del teatro a mettere in crisi processi identitari di qualsiasi tipo. L'evento scenico non può che darsi nella frattura che si crea fra la negazione della personalità individuale e il suo divenire doppio attoriale sul palco, frattura che coinvolge anche lo spettatore. Questi, infatti, si ritrova preso in una dinamica diversa da quella(e) della quotidianità, dove a essere coinvolto non è più il soggetto nella sua totalità ma una parte di esso, anzi un nuovo soggetto che nasce da una posizione che si suppone esterna, eppure interna, ai fatti (teatrali). Si capisce allora come il teatro sia un laboratorio per inventare molteplici vie intermedie fra soggetto e non-soggetto e proprio in tale peculiarità risiede una delle sue caratteristiche più prettamente politiche. I percorsi scenici degli ultimi anni pongono l'accento su questo punto, invitando spesso l'attore a “uscire ed entrare nel ruolo”, ma soprattutto invitando il performer a rimanere “vigile” sul palco, permeabile a intensità e influenze esterne, rendendo dunque lo spettacolo un processo potenzialmente sempre aperto e passibile di spontanee modifiche.
Azzardando un poco, è possibile mettere in relazione le nuove modalità dello stare in scena (nonché dell'approcciarsi a essa) con alcune evoluzioni politiche recenti. Se (almeno in certi contesti geopolitici) non si deve più parlare di rivoluzioni bensì di rivolte, è chiaro come anche la figura del militante risulti mutata di segno. Dicono giustamente Belpoliti e Manera: «Quello che in definitiva la rivolta destruttura è l’idea stessa dell’identità politica. Il Noi appare e scompare, e sospende il tempo storico a favore di quello che i Greci chiamavano Kairos: il giusto istante, il colpo d’occhio, quello in cui l’atleta compie la mossa giusta, supera l’avversario, taglia il traguardo». Non c'è più spazio per allora per la perfetta adesione a un ruolo, per la totale consacrazione della propria individualità a un interesse collettivo che sia in grado di compiere la rivoluzione. Scompare cioè, o almeno viene svuotata di senso, la figura del militante classico in favore di ribelli e ribellioni che si propongono di scardinare l'istante, senza alcuna progettualità; questo perché con il discioglimento e la frammentazione del potere, non esiste più un Noi che non si ritrovi già invischiato nelle dinamiche contro cui ci si rivolta, e che possa dunque fungere da alternativa efficace a queste ultime. L'unico gesto politico possibile è allora la radicale messa in discussione della soggettività, che è oramai centro di irradiazione di ogni disciplina di controllo, per arrivare tramite la rivolta alla costituzione di nuove, diverse, fino al momento prima della breccia impensabili identità, individuali e collettive.
E allora, se la piazza deve offrire promesse identitarie, da cui occorre però mettersi in guardia, così come l'attore non può fare a meno del suo doppio pur riducendolo continuamente a brandelli, si riesce a trasporre nella protesta attitudini partecipative incontrate a teatro? È possibile portare quella “vigile inquietudine”, che vediamo riflessa in scena, non in quanto pregiudizio ma come domanda di senso di cui investire il discorso politico e con cui pretendere di essere investiti dal discorso stesso? Che la figura del “buon ribelle” (per quanto retorica e ambigua sia questa espressione) combaci sottilmente con quella del buon performer?


Il primo giorno della protesta (foto F.Brusa)

Dalla parte di chi non ha parte

Qual è il segreto delle grandi anime? Il segreto dei Gandhi, dei Mandela, dei Martin Luther King? Cos’hanno più di noi? Perché ci piacerebbe essere come loro, ma non ci arriviamo neanche da lontano? Cosa ci separa, dal poter sentire, almeno per un attimo, ciò che muove i loro gesti? A separarci è una voragine? O un piccolo, determinante, ma quasi invalicabile dislivello? Ecco perché il teatro. Se non fossero necessari i corpi vivi, sarebbe stato sufficiente un film […] La specificità teatrale ci lascia invece una diversa opportunità.
(Nicola Lagioia, 
Cosa c'è di molto bello a Ravenna)

Rimane però una sensazione di mancanza, la nitida immagine di barriere che si vorrebbero veder crollate e che permangono invece impassibili. Pare lecito, nel momento in cui sembrano darsi le condizioni, attendersi qualcosa di più. Pare lecito provare a pensare un teatro che riesca a implicarsi direttamente nelle vicende politiche di una comunità, non più solo a livello dei processi ideali descritti in precedenza ma finalmente “nel merito” dei contenuti e delle modalità di una protesta con cui condivide praticamente gli stessi spazi e tempi urbani.
Si tratta di un'aspettativa pretenziosa, già parzialmente esplorata (a ovest) da molte esperienze teatrali dei '70 (Living Theater, Scabia, Fo...) e che, almeno in alcune delle sue premesse (una maggiore ricettività delle società di allora, la facilità con cui poter creare “alleanze” fra nuove forme sceniche e movimenti di emancipazione...), sembrerebbe essersi esaurita. Tuttavia, è una tensione in qualche modo inscritta nel dna della scena che stiamo raccontando. Spalatorie è uno spazio che si autodefinisce politico e, praticamente in tutti gli spettacoli che propone, punta il dito contro vari aspetti della società moldava in maniera esplicita (sulla scia di un teatro-documentario molto diffuso in questa zona). Non solo, la sala (che gestisce in totale autonomia tutto il processo produttivo delle performance) cerca di porsi anche come ambiente alternativo e staccato dalle dinamiche “ufficiali”. Dall'altra parte, al di là degli esiti che si verificheranno, le proteste rappresentano un evento eccezionale nel contesto del paese: scarse sono le manifestazioni di dissenso sociale, nulle o quasi le esperienze di autogestione di spazi e relazioni lavorative, se escludiamo Spalatorie appunto. Seppur fortemente indirizzata dall'alto, la protesta è una delle poche situazioni in cui la comunità moldava riesce a darsi in quanto “moltitudine” potenzialmente aperta all'ingenerarsi di processi. Non potrebbe quindi essere un momento giusto per tentare una prima, timida uscita da quella “fortezza vuota” che descrivono Civica e Scarpellini (che, anche se riferita la contesto italiano, riassume bene la sensazione diffusa nell'ambiente teatrale di quest'area)? Non certo per affermare “prese di posizione” non richieste, e che probabilmente non si condividono fino in fondo, ma per provare a portare una voce e una presenza diverse nel processo collettivo che, tramite l'immersione in quest'ultimo, possano magari tramutarsi in istanze e rivendicazioni.
Eppure, come immaginare “azioni sceniche” che siano incisive restando al di sopra (o al di sotto) delle parti, senza invocare una “alterità” o “generalità” del teatro, che significano in fin dei conti rimanere chiusi nel proprio contesto? Viene in mente Franco Ricordi quando afferma, nel volume di interventi “Passione e ideologia. Il teatro (è) politico”, che “il teatro non può essere né di destra ne di sinistra”. Al contrario, al di là di richiami e riferimenti “di sinistra” che si risolvono nella sfera estetica di un immaginario di fondo (Motus) o in attitudini vagamente agit-prop (Sotterraneo), il teatro è un contenitore in un certo senso più ampio della politica, che ha appunto a che vedere col Politico in quanto categoria lata. Sembrerebbe cioè (per quanto di tentativi ne siano stati fatti, da Brecht in giù) che sia impossibile declinare la propria poetica verso una precisa ideologia poiché il teatro si trova, per sua necessità intrinseca, sempre un passo indietro (nel senso di più generale) alla politica nelle sue concrezioni storiche. Ed è a questa dimensione originaria, se vogliamo più assoluta, che la scena non cessa di attingere e cui non cessa di rivolgersi. D'altronde, è la stessa Nicoleta Esinencu (drammaturga e co-fondatrice di Spalatorie) ad affermare, apparentemente a dispetto dell'approccio politico del suo teatro,  che «l'arte non salva, sotto alcuna circostanza. Non credo che sia possibile e penso anche che non sia questo il punto. Nessuno smetterà di picchiare sua moglie dopo aver assistito a uno spettacolo» (da "New performing practices in Eastern Europe"). Non c'è allora alcun collegamento immediato fra teatro e realtà, collegamento, si intende, identificabile come attinente a una precisa parte politica. Le indicazioni o gli orientamenti che un individuo trarrà dagli spettacoli, sempre che ciò sia auspicabile o addirittura possibile, avranno sempre a che fare con una sfera astratta del Politico e non possono dirigere pensieri e azioni nel campo politico concreto in maniera diretta.
Ma, volgendo lo sguardo all'altra proposta scenica di questi giorni, non è detto che tale meccanismo non sia declinabile in un senso più preciso e maggiormente pregnante. Con Waiting in the margins il coreografo Benno Voorham mette in scena uno spettacolo di danza delicato, soffuso, che non sembra certo voler lanciare accuse o denunciare alcunché. Tuttavia, la presenza reale di esclusi sul palco, di vittime di conflitti contemporanei è lì, con tutto il suo carico di interrogativi affatto politici, che ci si parano davanti agli occhi nella loro nuda attualità. Il fatto che questi ultimi non vengano urlati esplicitamente, ma emergano sottilmente da un racconto trasfigurato dei vissuti, non fa che amplificarne la portata. Perché ce li fa sentire vicini e ci consente di immedesimarci, certo. Ma anche perché, nel mostrarceli da una prospettiva e con modalità che non potremmo trovare altrove, ce li fa comprendere (diversamente da analisi di differente natura che ce invece ce li spiegano) attraverso una paradossale lente per cui ci appaiono, a un tempo, più complessi eppure meno complicati del solito.


Waiting in the margins di Benno Voohram (foto Kateryna Radchenko)

Si profila dunque un ruolo politico del teatro, sicuramente già ampiamente esplorato e sviscerato, che però occorre non dare mai per scontato: quello di riuscire a essere vicino agli “ultimi”, agli esclusi dalle dinamiche di potere dominanti. Più precisamente, e da questo punto di vista le parole di Ricordi acquisiscono un senso ancora più cogente, quello di riuscire a «dare parte a chi non ha parte». Se la politica, nella sua espressione storica degli stati-nazione (ma è un discorso che potrebbe valere anche per la polis greca), è un processo fondamentalmente esclusivo, che non cessa appunto di tracciare limiti in termini di partecipazione e azioni lecite, il teatro gli si contrappone in quanto evento potenzialmente inclusivo per tutti. Avendo a che fare con il Politico e non con la politica, la scena può porsi su un piano astratto e ideale dove le divisioni della seconda sono annullate e, così facendo, ci mostra la necessità di reinserire in essa determinate categorie di individui o istanze. Allora, seguendo Badiou nel suo recente Rapsodia per il teatro, il teatro ha sempre a che vedere con lo Stato, non in quanto discorso o denuncia verso l'attuale stato di cose bensì come ridefinizione continua del nostro approcciarci al Politico, vale a dire al nostro vivere in comunità. Ogni spettacolo, senza che questo assuma alcun valore fattuale, è sempre l'esperienza di una differente composizione del concetto di Cittadinanza. Se esiste una denuncia che il teatro rechi costitutivamente con sé è appunto il disvelamento del carattere fondamentalmente esclusivo del processo politico (a livello strutturale, si intende. Che poi esistano politiche più o meno esclusive/inclusive nella pratica, fra le quali è di vitale importanza discernere, è altro discorso).
Ma attenzione: tale ruolo della scena può darsi solo accettando pienamente l'esigenza di reale dell'arte contemporanea e le estetiche “orizzontali” che ne derivano. Non ovviamente come unica tensione in cui esaurire l'attività teatrale, ma almeno in quanto premessa: la dirompenza politica di tanto “teatro della partecipazione” che si costruisce a partire dal lavoro con non-attori o dalla presenza di non-personaggi sul palco (Rimini Protokoll, Gob Squad e, nel circuito italiano, Babilonia Teatri, ma anche alcuni tratti della poetica di Pippo Delbono o, con una concezione scenica di tutt'altra natura, la recente esperienza del Teatro Due Mondi con le operaie dell'Omsa) lo dimostra. Più in generale, la messa in crisi del soggetto attoriale, di cui si parlava in precedenza, non è soltanto una modalità espressiva riconducibile al “postmoderno”, ma anche un modo (forse l'unico possibile) affinché la pratica teatrale continui ad inferire al Politico dalla posizione super partes invocata da Ricordi e non attraverso binari ideologicamente predeterminati. Questo perché non esiste ormai alcun antagonismo possibile che si dia al solo livello di discorso. Provare a produrre un teatro di “critica” al potere in senso classico, che si voglia magari anche legare a una precisa parte politica, non farebbe altro che replicare semplicemente parole  e “simboli” di quest'ultima, perdendo completamente di vista le esigenze concrete per cui essa nasce e si rende storicamente necessaria. Detto altrimenti, significa illudersi che la politica oggi sia solo una questione di idee e non anche e soprattutto di corpi.
Si capisce allora come un teatro che non transiti per il soggetto attoriale, agendo come lama nelle fibre del suo vissuto (pure “extra-scenico) per poi restituire allo spettatore potenziali pratiche trasformative di tale vissuto, abdichi totalmente al proprio ruolo politico. Abdichi, in definitiva, a pronunciare un qualsiasi discorso sul presente.                   

Il teatro non serve a niente

Si avvicinò ai merli per considerare un attimo la situazione storica. Uno strato di fango ricopriva ancora la terra, ma qua è là piccoli fiori blu stavano già sbocciando.
(Raymond Queneau, 
I fiori blu)


Un momento della protesta (foto F.Brusa)

Nonostante tutto, però, la “terra di mezzo” che abbiamo preteso di interrogare rimane ancora non colmata. Malgrado gli sforzi teorici, o le semplici pretese idiosincratiche di uno spettatore casuale, il teatro e la piazza permangono come entità a sé stanti, ad abitare mondi diversi che non comunicano se non tramite suggestioni individuali e parallelismi azzardati. Citando ancora Civica e Scarpellini, se è possibile rinvenire i germi di una “frugale capacità d'azione” propria del teatro, non si capisce come questi possano dipanarsi nella società e lì essere riconosciuti, pur in quanto strambe “alterità”. Vale a dire che non sappiamo fino a che punto l'attuale “cornice istituzionale” del teatro, che gli è certo d'ostacolo nell'ampliare il suo discorso e nel far presa sull'oggi, sia d'altra parte necessaria al suo darsi estetico (pertanto, non sappiamo fino a che punto sia producente rifiutarla). Se “esodo dalla fortezza” dev'esserci, con quali strumenti, affatto concreti, sostenerlo? Può la scena bastare a se stessa e “debordare” soltanto attraverso i propri mezzi artistici?
Sono domande ovviamente senza risposta precisa, utili magari come orientamento nella pratica ma che, in un certo senso, risulteranno sempre fuori dalla portata di quest'ultima. Pretendere che il teatro si faccia pienamente carico di tali interrogativi significa forse volerlo imbrigliare in una teoria calata dall'alto che rischia di soffocarne la spontaneità. Significa anche passare sopra alla singola specificità di ogni spettacolo, in cui confluiscono urgenze di diversa natura, spesso molto meno astratte di quello che gli esiti farebbero supporre. Oppure la risposta esiste, e si trova fermamente ancorata in una dimensione negativa.
C'è infatti un ultimo dubbio sotteso, che almeno a prima vista ci strattona verso direzioni diverse da quelle che avevamo intrapreso. Un dubbio scivoloso, che sembra avere conseguenze (nefaste) prossime all'inazione collettiva o all'equiparazione auto-assolutoria di qualsiasi gesto. La valenza politica del teatro non dipende certo soltanto dal teatro stesso: a darle forma e a renderla anche solo pensabile sono i vari mutamenti storici con i rivolgimenti o riassestamenti sociali che ne derivano. Il teatro, qui inteso come le persone che lo “praticano” e che sentono di farvi parte, può sicuramente aver voce in capitolo in tali processi, a seconda del potere che gli è accordato o che riesce di volta in volta a conquistarsi. A un altro livello, più astratto, vi è poi la valenza politica del teatro in quanto tale, con tutte le sue connessioni teoriche al Politico, al soggetto, etc., che abbiamo provato molto parzialmente a indagare qui e che, se alla realtà pretende di allacciarsi, rimane pur sempre staccata da quest'ultima. Ed è forse proprio affermando nella maniera più assoluta il suo essere “altro”, invece che cercando continuamente agganci nel presente o immaginando possibilità di tradurre la teoria in azione, che se ne può cogliere al massimo il valore. Afferma Agamben, seguendo Heidegger, che la potenzialità più radicale è potenza di non diventare attuale. «It is a potentiality that is not simply the potential to do this or that thing but potential to not-do, potential not-to pass into actuality».
Il teatro in quanto non-essere, allora, in quanto capacità di non-poter-in-alcun-modo-essere. Come a dire che il valore politico della scena non va ricercato tanto in ciò che può fungere da esempio o indicazione nella realtà, sia essa quella individuale della quotidianità che quella collettiva di un evento eccezionale, quanto negli elementi che infinitamente si sottraggono all'attuale, in tutte quelle “fulgide impossibilità” che nella relazione teatrale si creano e che subitamente si sfaldano con l'esaurirsi di quest'ultima. In tal senso, anche, Castellucci dice giustamente che “non c'è speranza nel teatro” poiché esso “è sintomo, non terapia”. Il teatro non dà speranza poiché è resoconto, declinato al futuro, di qualcosa che non è mai accaduto e, in un certo senso, vorrebbe non accadere mai.


Una manifestante con la bandiera moldava (foto F.Brusa)

Nel ciclico verificarsi di tagli al settore e di polemiche che ne derivano (che non sono poi, dal punto di vista del nostro discorso, situazione troppo dissimile dalla simultaneità di eventi politici e teatrali che stiamo descrivendo) si sente spesso ripetere che il teatro (ma in generale la cultura) può essere “motore dello sviluppo”, generatore di processi di cui si raccoglieranno i frutti (anche economici) nel lungo periodo. Cioè, semplificando al massimo, che con “la cultura si mangia” in contrapposizione alle accuse per cui con “la cultura non si mangia”. Si crede di assegnare così al teatro una funzione sociale e un ruolo politico al loro grado più alto, quando forse glieli si stanno invece togliendo del tutto, almeno a un livello ideale. Si vuole appunto fare del teatro una “terapia”, magari più lungimirante o virtuosa di quelle da cui viene contestato, ma pur sempre una terapia. Ma affermare che il teatro sia utile o serva a qualcosa (con l'insinuarsi del dubbio che dietro a questo qualcosa ci possa essere, in fin dei conti, qualcuno) non è in realtà un modo per svuotarlo di senso?
Al contrario, è proprio nell'infinito e inesorabile sottrarsi del teatro a qualsiasi presa di posizione politica che sperimentiamo, in uno stato d'animo oscillante fra l'epifania e l'enigma, l'evidenza di un'alternativa diversa da quelle date nella realtà. Anzi, sperimentiamo la realtà stessa come un'alternativa fra le altre. Qui probabilmente risiede il valore politico del teatro nel suo senso più assoluto (per quanto anche nel suo carattere più indeterminato). E allora, tornando al nostro punto di partenza, inutile cercare, o meglio inutile sperare in un'alleanza critica o in un dialogo polemico fra la scena e la piazza, fra le proteste del “popolo moldavo” e le proposte della piccola scena “di ricerca” di Chişinau. Tale alleanza e tale dialogo esistono già nella radicale separazione dei due poli, da cui si può partire per costruire nuove gallerie e nuovi canali con l'incedere dell'azione, ma che occorre mantenere salda nell'involgersi del pensiero.
Si capisce dunque che la “terra di mezzo” è in realtà colma di un fango difficilmente penetrabile, costantemente scosso e rimescolato dalle disgregazioni della storia ma eternamente presente. Un fango denso, che si può attraversare forse solo con “brecce” puntuali e circoscritte, profonde ma genuinamente accidentali.  In esso, con arcana alterità e incespicante polifonia, stanno il teatro e i suoi spettacoli, come “fiori blu” che spuntano dal fango all'improvviso e che al fango fanno ritorno, oscuri testimoni di quegli attimi che affiorano, fra la disequazione del nulla e il costituirsi dello slancio.



Questo pezzo è stato scritto a dicembre, a circa due mesi dall'inizio delle proteste. Nel frattempo, le vicende da cui prende spunto si sono evolute, esaurendosi sotto alcuni aspetti o mutando di segno sotto altri (qui un esaustivo riassunto della situazione). Tuttavia, abbiamo preferito non modificare quella che vuole essere innanzitutto un'istantanea di momenti e “umori”, pur nella generalità di riflessioni che si spera possano offrire spunti per ulteriori dibattiti.

Un ringraziamento particolare a Lorenzo Adamo.

di Francesco Brusa
 

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