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Electro Camp – International Platform for New Sounds and Dance, a Forte Marghera dal 7 all'11 settembre


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Grigio. Cronache dalla primavera del socialismo tascabile hello
Published Date: 0000-00-00 00:00:00

«Rimasi stordito
in silenzio
mi accorsi dolorosamente
che era davvero la prima volta
era la prima volta
che dubitavo
nel Socialismo»

(Offlaga Disco Pax, Khmer Rossa)

La prima volta

Correva l'anno 2005, e non era certo la prima volta che si dubitava del socialismo. Dai “comunisti eretici” che hanno attraversato tutta la storia del XX secolo, all'entrata dei carri armati sovietici a Praga che ha fatto traballare tante ortodossie, fino ovviamente alla caduta del muro avvenuta quasi due decenni prima e che ha dato il via a una miriade di dissoluzioni (sempre più inesorabili) e rifondazioni (invero di volta in volta sempre più velleitarie), la “galassia socialista” si era già arricchita di numerosi ma, di timidi se, di eterogenei però. Eppure, era forse la prima volta che quel dubbio trovava una nuova legittimazione, una legittimazione diversa. L'uscita di Socialismo Tascabile del gruppo reggiano Offlaga Disco Pax, anche senza volerlo, ha segnato un'inversione di tendenza. Certo, stiamo parlando di Italia, di una particolare fetta dei suoi abitanti e di una particolarissima nicchia di “consumatori culturali”. Eppure, in quella Italia, in quella particolare fetta dei suoi abitanti e in quella particolarissima nicchia di “consumatori culturali”, il comunismo diventava cool, la rievocazione del suo spettro si accompagnava – oltre che alla naturale posa di malinconia e rassegnazione – a un certo grado di soddisfazione e compiacimento. In maniera direttamente (e sinistramente) proporzionale alla sua scomparsa politica, il comunismo diventava sempre di più un fatto estetico. Con anche un certo grado di successo, potremmo dire.
Fili e tralicci, dai tralicci ai cavi, cavetti, onde magnetiche e bluetooth, tecnologie e connessioni finalmente wireless. Siamo cervelli in rete, cognitariato allo stato gassoso? Nella nebulosa di pixel con cui ci interfacciamo ogni giorno – quella nebulosa che, a volerla vedere come un canone artistico, è veramente il “realismo capitalista” di cui parla Mark Fisher – esiste una continua e incessante (micro)propaganda. Una propaganda fatta di meme, vignette satiriche, parodie, posture post-ironiche, riferimenti arditi e decontestualizzati, richiami all'estetica di stato sovietica, “Ostalgie” pret-à-porter. Pagine come Hipster democratici HD o Automatizzato Comunismo Memetico creano un cortocircuito fra parodia del presente e una rigidissima benché disimpegnata (in quanto puramente estetica) fedeltà ai capisaldi delle ideologie e delle esperienze storiche di derivazione marxista. Quella degli Offlaga è stata più che altro una profezia: il socialismo è diventato veramente tascabile. Uno dei pochi posti in cui lo si può trovare oggi è proprio lo schermo dei nostri smartphone che ci portiamo in giro ogni giorno.
Non è un fenomeno analogo alla iper-citata faccia di Che Guevara sulle magliette dei liceali. Lì è semplicemente il naturale destino delle icone nell'era della riproducibilità tecnica, una contraddizione fattuale sì ma che conserva comunque la potenza evocativa del pensiero dietro l'immagine. Sebbene in scala, presuppone una ritualità collettiva. Ora è invece la vacuità del simulacro, la pervasività rappresentativa che si nutre di un'assenza assordante a livello storico e concreto. Ben più di un'assenza, una radicale impossibilità. Perché ci fanno ridere, per esempio, le attuali vicende della politica italiana associate a riferimenti visivi o concettuali al (glorioso) passato comunista? Perché ci appare improbabile al limite del ridicolo, appunto grottescamente impossibile, che anche solo un briciolo di quella presunta gloria e di quella presunta grandezza si concretizzino oggi (si concretizzino, beninteso, alle soglie della nostra percezione, non tanto a livello fattuale).   
Cosa regge tutto ciò? Attraverso quale principio il “socialismo” riesce a traslarsi in un fatto estetico? Perché esso passa ad essere innanzitutto una vicenda personale, legata alle biografie di ciascuno. Ribaltando il detto femminista per cui il privato è politico, ora è il politico a diventare privato, quasi intimo. È come se la sequela di miti, icone, storie, concetti, teorie, tutto quello che anche solo a un minimo grado di complessità maggiore potremmo definire “immaginario”, si sfaldasse in una nebulosa indistinta e rassicurante, un disordinato cassetto pieno nemmeno di ricordi e oggetti, ma di “cianfrusaglie” e confuse reminiscenze. Una sorta di comunismo ipnagogico, una sinistra da cameretta. Proprio come il pop di James Ferraro o di Ariel Pink, figlio di una fruizione musicale totalmente orizzontale e disorganica, introflessa e (auto-)nostalgica. Queste cartoline da un “socialismo reale immaginato” in fondo ci cullano, ci rassicurano, ci instradano verso un sonno non più della ragione ma della memoria. Non a caso è stato sostenuto che quella dei “meme” (solo una parte di ciò che stiamo descrivendo, ma parecchio significativa) sia un'arte intrinsecamente reazionaria, consustanziale a quel nuovo fenomeno che è l'Alt-right (a questo proposito si veda il libro di Alessandro Lolli, La guerra dei meme). Un'arte e una postura che – al netto di intenzionalità e atteggiamenti ben diversi fra loro - sono sostanzialmente l'espressione dell'attuale risentimento dell'uomo bianco in crisi, risentimento che starebbe alla base negli Stati Uniti della vittoria elettorale di Donald Trump e da noi della rinascita (meglio, del risveglio) di forze politiche xenofobe e fasciste.

Si sarebbe davvero tentati di individuare nell'uscita dell'album degli Offlaga Disco Pax un nuovo passaggio di fase. Senza alcun evento traumatico, come una sorta di tam-tam collettivo che da battito leggero e interesse transitorio si è fatto infine egemonia generazionale, quella che diventerà dal punto di vista musicale l'ondata dell'indie italiano si accompagna al sorgere di altre tendenze culturali, non di poco conto se pensiamo soprattutto a chi adesso si aggira fra i 25 e i 35 anni. Prendiamo la testata on-line Vice (che ha ovviamente una storia ben più lunga e affonda il proprio stile in esperienze letterarie di notevole spessore): Vice porta al successo un tipo di giornalismo che si ripromette di sovvertire i canoni dell'informazione, con un'attitudine sporca, iperbolicamente accattivante e provocatoria. Soprattutto, un giornalismo scritto in presa diretta e in prima persona, dove spesso gli articoli si risolvono nel racconto di come e in quale situazione è stato scritto l'articolo stesso: via libera a idiosincrasie, tic verbali, perversioni sintattiche e lessicali, ricerca esasperata dell'eccesso tematico che metta in luce non tanto i contenuti della notizia quanto la sua spettacolarità (il più delle volte artificiosamente costruita).
Si fa strada insomma un trionfo generalizzato dell'ironia e della sagacia, una sorta di cinismo 2.0, e si fa strada in particolar modo “a sinistra”, con corrispettivi meno “underground” e, se vogliamo, maggiormente istituzionali. Qualche anno fa lo scrittore Giorgio Vasta individuava appunto nella “sagacia”, propria di programmi televisivi di successo e apparentemente engagé come “Gazebo” di Diego Bianchi in arte Zoro (ora “Propaganda Live”), il dispositivo che nel tempo si è dato l'elettorato di sinistra italiano per rielaborare l'inesorabilità delle proprie sconfitte politiche (sublimandole in un atteggiamento estetico, aggiungeremmo a questo punto). Un dispositivo che, attraverso l'ironia, fornirebbe una parvenza di autocritica e imparzialità mantenendo allo stesso tempo anche la sotterranea sensazione di una certa superiorità (morale? culturale?) da parte di chi ne fa uso. Si tratta di un fenomeno che, come dicevamo in precedenza, interessa una particolare fetta di persone. Persone fra le quali è possibile tracciare corrispondenze abbastanza precise in termini anagrafici, di reddito e percorso educativo. Si tratta, in sostanza, di un fenomeno di classe. Tutto sta nel definire in maniera efficace quella classe. Si va dall'abusata e in fin dei conti banale locuzione di “radical chic” da parte di Tom Wolfe, alle “classi parlanti” evocate da Christopher Lasch nel suo La ribellione delle élite (saggio che fra l'altro ha goduto di una sorta di rinascita in seguito all'elezione di Trump), fino al recente e controverso “web-pamphlet” di Raffaele Alberto Ventura Teoria della classe disagiata.   
Comunque, possiamo affermare con buona approssimazione che fanno parte di questa fantomatica classe chi scrive questo articolo, e probabilmente chi lo legge.

Chissà se con altrettanto buona approssimazione, possiamo affermare che delle dinamiche di questa classe facciano parte anche alcune traiettorie del nuovo teatro di ricerca italiano. Lodo Guenzi e gli Stato Sociale escono certamente dall'humus culturale che stiamo descrivendo, anzi, hanno fatto della privatizzazione dell'immaginario di sinistra una cifra stilistica per buona parte della loro carriera nonché una leva di comunicazione ambigua, rispetto alla quale il gruppo a volte si smarca e altre volte rivendica appartenenza. Allo stesso modo, lo scrittore Daniele Rielli-Quit the doner (drammaturgo per La rivoluzione è facile se sai come farla) muove i suoi primi significativi passi nel panorama informativo proprio sulle pagine di Vice. Anzi, forse lui più di ogni altro ha saputo interpretare lo “stile Vice” come un filtro attraverso cui leggere il presente, in un filo teso tra l'efficace utilizzo di quel filtro in quanto “specchio magnificante” dei personaggi e delle situazioni descritte nei suoi reportage (ed è già un punto di contatto con il drammaturgo Nicola Borghesi) e il rischio infine che la realtà ne risulti deformata al punto da non essere più riconoscibile, ne risulti in fondo completamente travisata solo per servire le esigenze di chi la racconta.
È dal fondo di tali evoluzione culturali, accovacciati nelle pieghe di questo zeitgeist di nicchia, che osserviamo buona parte del teatro della corrente stagione.


Lo Stato Sociale

Bologna, vetrine e barricate

Sembra finita l'era delle barricate, al loro posto stanno le vetrine. Sono due anni di importanti anniversari politici e Bologna si è attrezzata al meglio per celebrarli. Esistono veri e propri percorsi, che si snodano fra musei, piccole esposizioni, mostre-evento, per “riattivare la memoria” della rivoluzione russa, della rivolta studentesco-creativa del '77, della contestazione sessantottina… Anche l'Arena del Sole ha dedicato parte della propria programmazione a spettacoli che attraversano tali tematiche. Spettacoli eterogenei, di diverse entità produttive ed estetiche, ma che paiono legati dal “filo rosso” della volontà di parlare al presente tramite un passato, mitico, nascosto, riattualizzato, dimenticato che sia, o comunque accomunati da una generica dimensione di ancipite malinconia: rivolta all'indietro, com'è naturale, ma anche in avanti.
Nel frattempo, la città mette in vendita l'immagine di se stessa. Si legge dall'introduzione dal libretto che le Edizioni dell'Asino hanno appena dedicato alla situazione bolognese (A che punto è la città?): «I dirigenti del PD e gli amministratori hanno costruito un impianto retorico finalizzato a legittimare una prassi di governo che non ha nulla a che vedere con il passato e – al tempo stesso – a rappresentarla in continuità con esso. Un'operazione difficile, che necessita di una macchina di produzione del consenso. Questa produzione è fondata principalmente sull'uso di parole e concetti “positivi”, come partecipazione e rigenerazione urbana, e sull'evocazione di modelli di sviluppo apparentemente promettenti sul piano economico e occupazionale (la città del cibo, la città del turismo).
Ma di retorica si tratta: le parole suadenti nascondono – in realtà – un significato opposto. I percorsi partecipativi spingono i cittadini entro recinti rigorosamente presidiati nei quali non è possibile decidere nulla di sostanziale né far valere forme di organizzazione autonoma. I progetti di rigenerazione sono molto spesso il vestito cucito su misura per interventi speculativi. Il cibo e il turismo rappresentano l'intelaiatura – economica e culturale – intorno alla quale si sta strutturando una profonda alterazione del tessuto sociale e urbanistico nel centro storico e in alcune zone periferiche e semiperiferiche. Nella sostanza, queste retoriche camuffano il nocciolo della questione, ovvero la consegna dei poteri pubblici a quelli privati e l'adesione dei primi al modello economico e politico che va sotto il nome di neoliberismo». Purché a Bologna si mangi bene, questo sembra essere l'adagio delle politiche bolognesi negli ultimi anni. Si raddoppino gli esercizi commerciali e i luoghi di ristorazione (non necessariamente ristoro), purché a Bologna si mangi bene. Si moltiplichino i supermercati, dove magari fra una tigella e l'altra troviamo anche libri sugli scaffali, purché a Bologna si mangi bene. Si renda il centro cittadino praticamente una succursale della Coop, purché a Bologna si mangi bene. Si proceda allo sgombero coatto, di centri sociali, di intere palazzine popolari, di case in comodato d'uso, purché a Bologna si mangi bene. Si applichi infine il daspo urbano ai senzatetto che stazionano “entro le mura del decoro”, purché a Bologna si mangi bene.
È evidente che in una situazione siffatta, quello della “spettatorialità” non è più solo un tema relativo all'ambito estetico. Al posto delle barricate ci sono le vetrine, anzi le vetrine diventano in tutto e per tutto le barricate. E i cittadini sono sempre più spettatori. Quella della città-vetrina è in fondo una metafora, affatto concreta, dello statuto di trasparenza che sta assumendo la politica negli ultimi tempi. Non certo la trasparenza nel senso di onestà e chiarezza che viene invocata da tanti partiti, le manovre dei quali anzi sembrano diventare sempre più opache soprattutto a livello urbano. Bensì la trasparenza come sublimazione di un'assenza diffusamente percepita, per cui le ragioni di scelte e decisioni amministrative si risolvono quasi sempre in generica promozione del territorio, in indiscutibili esigenze di aumento della ricettività turistica. Eppure la politica è lì, ne percepiamo i contorni ma l'occhio le passa attraverso, assistiamo ai suoi risultati faticando a vedere i processi che li hanno generati.
Ecco allora che diventa esiziale capire da che parte della vetrina stiamo, capire da dove si guarda.


Domande simili si agitano anche nel sottotesto di Atlas des Kommunismus di Lola Arias, proposta certo lontana dal contesto appena evocato che però si mette in risonanza con esso tramite testimonianze e racconti dalla Germania divisa dal muro. A ricalcare la situazione berlinese durante la guerra fredda, anche gli spettatori entrano in sala da direzioni opposte: il palco si trova in mezzo a due serie di gradinate posizionate una di fronte all’altra, proprio come la DDR e la BDR. Noi “in-comodamente seduti e fermi”, le figure sulla scena che invece ci invitano a smuovere lo sguardo e la memoria, sia del passato – nel momento in cui si parla del socialismo che (non) fu, attraverso frammenti di vita vissuta oltre la cortina di ferro – sia del presente – quando lo spettacolo si sofferma sulla distanza fra le vecchie e le nuove generazioni, spargendo in maniera programmaticamente disorganica ipotetiche prefigurazioni e lacerti di futuro. Sei donne e un uomo (dalla più giovane di 9 anni fino alla più anziana del gruppo di 80) che interpretano se stessi, per ripercorrere un tratto di storia che parte dalle persecuzioni naziste contro gli ebrei arrivando fino a oggi. Sei donne e un uomo che in realtà non interpretano esattamente se stessi, bensì le loro biografie, o ancora meglio quella componente di rappresentatività storica del proprio vissuto. Seguiamo le peregrinazioni di Salomea Genin, ebrea tedesca dapprima in fuga verso l’Australia poi di ritorno nella Germania Ovest poi addirittura agente per la polizia segreta della Stasi, ma ancora prima di queste peregrinazioni geografiche ci confrontiamo con le sue oscillazioni interiori: sentimenti di vendetta, volontà di costruire un mondo nuovo, fedeltà al “sogno comunista” e completa disillusione per il suo crollo, rimorso, senso di colpa, scampoli di un’intima dignità che si conserva nonostante tutto. Ascoltiamo le altalenanti vicende professionali di Monika Zimmering, nata sotto la DDR e diventata interprete per la Repubblica Socialista, anch’ella caratterizzata da punte d’orgoglio nonostante il crescendo di frustrazioni. Ci lasciamo coinvolgere dalle “eterne fughe dal grigio del reale” di Jana Schlosser, verso immaginari di liberazione con la sua punk-band Namenloss e, più concretamente, verso l’Ovest poco prima che il muro cadesse ufficialmente, mentre Mai-Phuong Kollath ci offre invece la prospettiva dello scollamento fra “radiosa propaganda” di regime e la sua tangibile e difficile quotidianità, attraverso le esperienze da immigrata vietnamita negli anni ‘60. Restiamo spaesati di fronte agli affondi e all’incisività recitativa di Ruth Reinecke, attrice del Gorki Theater durante la caduta del muro, che in scena incarna una strano connubio fra la se stessa di adesso e la se stessa del passato, diventa voce e corpo del Teatro in quanto tale, come luogo di rifugio e insieme di rilancio. Fino ad arrivare a chi nasce e cresce nella Germania ormai riunificata, almeno “ufficialmente”, visto che ancora permangono vistose differenze. Tucké Royale, omosessuale dichiarato e attivista dell'Antifa, cerca di tradurre l’afflato rivoluzionario e le lotte egualitarie che l’hanno preceduto nel mutato contesto di fine anni ‘90 e inizio 2000, così come la sedicenne Helena Simmon, figlia di attivisti berlinesi di sinistra, che solidarizza in tutto e per tutto con i rifugiati partecipando alle loro lotte. Infine una ragazzina di 9 anni, a far da contrappunto ironico e irriverente, lei che grazie alla leggerezza “color dell’aurora” dovuta alla sua età ben si oppone a chi invece reca il peso degli avvenimenti e delle cadute sulle proprie spalle.


Lola Arias, Atlas des Kommunismus

È stato detto che, a dispetto del titolo, Atlas des Kommunismus non è in alcun modo un atlante. Nessuna pretesa di esaustività, rispetto alla storia del socialismo in Germania, né, in fondo, alcun giudizio su quelli che ne sono stati esiti e conseguenze nella società attuale. Al contrario, come vuole una tradizione storiografica ma anche teatrale ben consolidata (come fa notare Roberta Ferraresi), c'è il recupero delle “micro-storie” dei protagonisti ma soprattutto dei vinti di questa esperienza, con tutto il carico di aspirazioni individuali troppo spesso schiacciate dagli ideali collettivi, biografie interrotte, desideri eretici e relazioni eccessivamente spontanee e sincere per la ristrettezza morale di chi sta al potere. Con tutto il carico di indeterminatezza nel tentare di circoscrivere queste storie sotto un unico “cappello”: il sipario si chiude su di un confuso crescendo di voci disparate e inintelligibili, ciascuno degli attori a reggere il proprio personale megafono con cui urlare le proprie personali istanze. Eppure ecco che, da questo punto di vista, lo spettacolo di Lola Arias è in tutto e per tutto un atlante. Un atlante delle emozioni. La parabola del comunismo è un racconto che ci sfugge, si dipana in mille rivoli di senso incompiuto, prototipi di avvenire che rimbalzano da una parte e dall'altra e che, ai nostri occhi, significano ormai più per le tracce che lasciano che per ciò che sono state concretamente. Ed è da queste tracce forse, più che dalle proverbiali “macerie” - onnipresenti e sempiterne in tante delle narrazioni ad agiografia inversa che si fanno del Novecento – occorre ripartire. Tracce che hanno a che fare col sentimento, e che dunque corrono sul problematico e sottilissimo filo del sentimentalismo e della vittimizzazione. Ma che quel sentimento si sforzano di recuperare come principio di azione e di conoscenza, che sì è, dovrebbe, potrebbe, può essere anch'essa un'azione, nel momento in cui è condivisa e messa al vaglio del dibattito e dello scontro. E chissà, forse la più importante fra le azioni, sembra suggerirci infine Atlas des Kommunismus.


ErosAntEros, 1917

Ma la parola nuda, della quale la conoscenza inevitabilmente si nutre, appare sempre impotente. Che ne è della verticalità poetica, senza l’orizzontalità di lotte e avvenimenti concreti in cui non cessa di inscriversi? 1917 di ErosAnteros mette in scena una strana e perturbante galleria di “cadaveri verbali”. Certo, i versi di Blok, Chlebnikov, Esenin, Geršenzon, Majakovskij e Pasternak sono alta letteratura, e in tal senso un materiale intrinsecamente vivo e attuale, ma noi non possiamo che contemplarli dal seno della loro sconfitta storica. La protervia con cui Agata Tomsic prova a infonderli di ritmo e suono, una protervia spinta fino al limite della distanza e dello straniamento, assomiglia in fondo alla riesumazione di un corpo morto, a un esorcismo magari generoso ma in fondo velleitario. Anzi, peggio, che della propria velleità rischia di fare un motivo di autocompiacimento.
Bastano le note di Šostakovič per ridarci il senso di “tragico tradimento” che le storie narrate da questi versi recano con sé, almeno ai nostri occhi? Possiamo davvero godere del ticchettio di “parole usate come martello” senza alcuna domanda relativa all’incudine su cui si abbattono? Non si sta parlando qui di una valutazione rispetto all’esperienza dell’Unione Sovietica, che si è generata anche grazie ai quei versi e agli “umori” che quei versi hanno impresso con potenza probabilmente inarrivabile su carta. Bensì di quella strana temporalità, quel senso feroce e fiduciosamente disilluso di non-ancora, che si è poi risolto in un generico annullamento dell’impeto e della dionisiaca imprevedibilità dell’evento. 1917 è una cavalcata a ostacoli mentre si trattiene il fiato, la cronaca impetuosa e trasognata di un naufragio annunciato, che però di questo naufragio non ci restituisce le ragioni più profonde. Ragioni di cui sentiamo di aver bisogno per meglio immergerci nelle onde, per “rosicchiare le notti” sapendo che il buio è innanzitutto segno di un rimosso, nel quale tanto più ci immergiamo tanto più risalterà la luminosità delle stelle a fare da contrappunto, parole scolpite, fari immateriali, ipotesi di un futuro da immaginarsi.


Claudio Longhi, La classe operaia va in paradiso

Rimuovere il rimosso

Anche alla base di La classe operaia va in paradiso, spettacolo “di punta” della stagione per la regia di Claudio Longhi, sembra esserci un rimosso. La pellicola di Elio Petri viene assunta come una sorta di dato di fatto: i titoli di testa del film scorrono su un velatino che occupa quasi tutta la larghezza del palco, mentre dal fondo della scena inizia a prendere forma una trasposizione teatrale che fa della sontuosità di mezzi e della stratificazione spaziale le proprie cifre caratteristiche. Coerentemente con il proprio percorso, il regista bolognese costruisce una mastodontica macchina “iper-brechtiana”. Coerentemente con la propria formazione e con la propria attitudine, Longhi concepisce il materiale di partenza dello spettacolo come una “sfida filologica” da affrontare su tutti i livelli, dalla sceneggiatura alla regia, dai presupposti artistici e ideologici dell'opera al modo in cui essa è stata ricevuta dalla società e dalla critica dell'epoca. E ciò che ne esce, a dirla tutta, è una specie di gigantesco e tridimensionale “director's cut”. Dietro lo schermo la squadra di attori, capeggiata da Lino Guanciale, recita con sostanziale fedeltà le scene più significative del film, “attualizzandole” attraverso minimi spostamenti e discrasie (Militina, ex-dipendente della fabbrica in cui lavora il protagonista Lulù Massa finito in manicomio, viene interpretato da una donna, etc…); sul proscenio troviamo numerose incursioni degli stessi Elio Petri e Ugo Pirro, che discutono la genesi del film e il continuo spostamento degli obiettivi che si sono prefissati; in platea, fra le poltroncine dell'Arena del Sole occupate in buona parte dal pubblico, assistiamo per alcuni momenti a un vero e proprio cineforum, in cui vengono ripresi dubbi e opposizioni che importanti esponenti della critica cinematografica mossero alla pellicola dopo la sua uscita (ascoltiamo le parole che Fofi scrisse sui Quaderni Piacentini...), così come sul palco ci sono decise ellissi temporali che ci riportano all'oggi, con degli ipotetici spettatori che in un altrettanto ipotetico 2017 hanno appena assistito al film e si interrogano sulla distanza che da esso li separa; infine un riccioluto menestrello (impersonato da Simone Tangolo), armato di chitarra e di impeto kurtweilliano, a girovagare per la sala e a lanciare divertiti e arguti affondi in forma di ballate sulle condizioni di lavoro ieri e oggi, passando anche dai contratti precari e dai braccialetti di Amazon.

Proprio una manciata di ore prima di una delle repliche dello spettacolo, e a un paio di settimane dalla sparatoria di Macerata, Bologna ospitava il comizio dell'esponente di Forza Nuova Roberto Fiore. Un evento a dire il vero scarsamente partecipato, a “difesa” del quale però c'è stato un ingente dispiegamento di forze dell'ordine che non hanno esitato a utilizzare idranti e manganelli per disperdere il composito corteo che provava a contestare il dirigente neofascista. Si è trattato di un momento conflittuale come se ne vedono altri nella città emiliana ma che, nelle file antifasciste, ha forse messo in campo una coesione e una prontezza di risposta cui non si assisteva da un po' di anni. Intanto, sul palco si parlava della condizione italiana come quella di «uno stato costantemente sull'orlo della deriva fascista», stavolta con riferimento al clima degli anni '70 in cui, tra slogan murari e concreti atti eversivi, tangibile era lo spettro dei colonnelli e forti le spinte a “fare come la Grecia”. Un raddoppiamento fra teatro e realtà fortuito ma piacevolmente straniante, soprattutto per chi si è magari ritrovato a essere presente all'appuntamento con l'uno e coll'altra a poche ore (e a pochi metri) di distanza. Un raddoppiamento che lascerebbe anche presagire una sensazione di armonia e organicità fra cultura e lotta politica, fruttuoso connubio di impegno etico e ricerca estetica.  
Eppure una tale armonia risulta sospetta proprio perché troppo conchiusa, combaciante in se stessa. Claudio Longhi cerca di riportare a teatro una dimensione di centralità sociale, civile. Una centralità soprattutto di Discorso, che si vuole con la maiuscola perché intenzionato a costruire ordine, a concepire la scena come luogo di riflessione ponderata e ragionata sull'oggi. Perciò la sua trasposizione sul palco del film di Elio Petri è improntata a un approccio da “teatro di regia” nel senso alto del termine, ovvero mosso da una volontà di recupero di una consapevolezza critica totale, che investa qualsiasi livello e stratificazione dell'opera. Ma gli strumenti con cui questa ricerca si dispiega sono in fondo tutti strumenti del passato, completamente interni all'opera stessa di partenza. Come si è detto, il regista bolognese assume il film di Elio Petri alla stregua di un dato di fatto. Senza cioè negare che si sia trattato di qualcosa di problematico all'interno della cultura di sinistra in cui si inscrive pienamente, di una proposta estetica significativa e proprio per questo assolutamente non pacificata relativamente alla sua ricezione, ma non trovando altro modo per rappresentare tale problematicità che le parole e i dubbi che già all'epoca della sua uscita nella sale la pellicola suscitava all'interno di un certo pubblico e di un certo ambiente. Utilizzando dunque una “forma critica” che già fa parte del patrimonio interpretativo e filologico relativo al “testo” e che, di fatto, neutralizza la carica eversiva che il testo potrebbe ancora avere nel presente. Un esito che rischia di essere paradossale: La classe operaia va in paradiso si pone come obiettivo il recupero di un'autorialità e di un'autorevolezza forti, di una centralità di stampo pasoliniano del ruolo da intellettuale, ma per farlo si nasconde e si risolve quasi totalmente nella maschera dell'Autore (Elio Petri), che di questo recupero dovrebbe semplicemente costituire l'abbrivio.


Scontri il 13 febbraio a Bologna tra le forze dell'ordine e i contestatori del comizio di Forza Nuova
   
Allo stesso modo, il rischio del conflitto fra neofascisti e antifascismo (non antifascisti!) “andato in scena” qualche ora prima per le strade di Bologna corre un rischio analogo, ovvero di risolversi in un discorso, per così dire, interno al conflitto stesso. Perché poi arrivano le elezioni, Forza Nuova prende lo zero virgola, e la pletora di commentatori televisivi inizia a urlare come la retorica della “marea nera” fosse solo allarmismo, peraltro irresponsabilmente esagerato. Arrivano le elezioni e, in effetti, si mostra come nella stessa Macerata colpita da un attentato si sia sedimentato poco, anzi nulla, della generosa manifestazione che si è svolta a dispetto dell'indecoroso balletto di dichiarazioni e smentite tra associazionismo ed esponenti politici di vario livello. Perché il punto è quello che individua Sergio Sinigaglia per cui «negli anni Settanta, il neofascismo era ben presente nel nostro Paese. Il MSI era il quarto partito, dopo DC, PCI e PSI. Nelle elezioni del 1972 ottenne l’8,7%. Quattro anni dopo, nella tornata elettorale che sancì il duopolio tra democristiani e comunisti, calò di un paio di punti, ma mantenne la posizione. La piccola differenza è che costituiva un’isola neofascista, circondata da un mare in cui l’antifascismo, nelle sue varie versioni, più tiepido o più intransigente che fosse, era tendenzialmente maggioritario. Lo era dal punto di vista politico, ma anche culturale e – verrebbe da dire – antropologico. Oggi la netta impressione è che la situazione sia completamente rovesciata. Il diversificato mondo dei movimenti antirazzisti è l’isola, circondata da un sempre più minaccioso mare di indifferenza, paura, intolleranza, fino a vere e proprie manifestazioni diffuse di razzismo». Non è una questione di numeri elettorali, né di frequenza di episodi violenti. È una questione di potenzialità di rilancio etico-antropologico e culturale, di ampliamento rizomatico dei discorsi e delle soggettività. Viene cioè il sospetto che troppo spesso quello del “fascismo vs antifascismo” diventi un frame angusto, in cui l'attenzione ricade solo sulla natura dell'opposizione perdendo di vista le strutturali differenze degli opponenti. Diventi, come accennavamo, a uno scontro fra fascisti e antifascisti, quasi fossero delle squadre. Da lì il passo è breve a dichiarare l'equivalenza di entrambe le posizioni e la loro uguale irrilevanza dal punto di vista politico. Occorre invece sforzarsi di comporre il conflitto in maniera diversa, occorre sforzarsi di ribadire che la partita si gioca appunto non fra fascisti e antifascisti bensì fra fascisti e antifascismo, ove non ci troviamo di fronte a due estremi appartenenti allo stesso spettro, l’uno il contrario dell’altro, ma su due livelli diametralmente incomunicabili e non incasellabili nella stessa logica politica e rappresentativa. Se da una parte c’è un confuso miasma di istinti proto-partecipativi ed egotismo, tenuti insieme dal vettore paura/orgoglio, dall’altra c’è un movimento aperto che dovrebbe ambire a essere “cultura” in senso lato, a fare della trasversalità un principio di articolazione di discorsi e pratiche, non già di ricerca del consenso e di “egemonia quantitativa”.
Il fatto che un tale punto sia spesso eluso, deriva in buona parte dallo sfacelo sociale in cui navighiamo a vista, che ha fatto proprio di una serie di rimossi (del conflitto, del classismo, della politica…) delle leve di omologazione. Ma, probabilmente, deriva anche in qualche misura da errori interni ai movimenti stessi, da eccessivi istinti di conformità con un passato da cui si prendono in prestito acriticamente lessico e simbologie per sorreggere azioni rivolte invece al presente. Per questo diventa allora di massima importanza coltivare una vocazione del margine, saper osservare, oltre che il centro dei conflitti, anche i loro malleabili e vulnerabili bordi, quelle zone in cui segretamente si diluiscono e intersecano con l’altro da sé in ibridi inaspettati.
Ecco, sarebbe forse bello pensare l'antifascismo oggi anche come una componente impalpabile con cui abitare la nostra quotidianità. Pensare l'antifascismo come un luogo dell'anima.


La manifestazione antifascista a Macerata del 10 febbraio 2018 (foto Ansa / Massimo Percossi)

Una felicità non rimandabile

Proprio come una ricerca sulla scomparsa di “luoghi dell'anima” nel contesto bolognese ha preso forma Il giardino dei ciliegi di Kepler-452. Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello hanno condotto interviste, intessuto dialoghi e costruito incontri, scoprendo oltre a persone anche quei pezzetti di territorio magari invisibili ai più ma che per altri assumono significati importanti, quasi vitali. D'altronde, la locuzione “la città che cambia” rimane vuota se non ci si chiede anche per gli interessi di chi cambia e in che modo, relativamente alle singolarità e alle biografie di cui la città si compone. 
Ed è semplicemente la forza di questa domanda, soffusa ma trainante, a determinare gli strumenti della messa in scena. Si parte da Checov, e lo si segue in tutto e per tutto fino alla fine, ma in mezzo c'è la storia dei coniugi Bianchi, protagonisti reali di uno sgombero che un paio d'anni fa è stato perpetrato ai loro danni per lasciare spazio al FICO di Farinetti, c'è l'ambigua sfrontatezza di Lodo che riesce ad abbozzare una spietata autocritica di se stesso e al medesimo tempo a “far passare” anche sul palco dell'Arena del Sole la sua hit sanremese, c'è un piccione che parla dal microfono, cataste e cataste di oggetti che parlano anch'essi, anzi no non parlano perché sono semplici ricordi, anzi parlano proprio perché custodi di una memoria, di una voce dura e resistente alla polvere, c'è il racconto meta-teatrale di come è nato lo spettacolo che si dipana qua e là… In mezzo ci siamo anche noi, gli spettatori, chiamati a un certo punto a salire sul palco e a dar corpo a una festa straniata e decadente. E poi c'è quel senso di “fine”, tipico del teatro checoviano. Ma la fine di cosa? Intanto la fine di quelle “retoriche suadenti” del marketing e della rigenerazione urbana, che evocavamo in apertura. La consapevolezza che si tratti di retoriche sì vincenti, poiché – proprio come il Lopachin del testo originale – sfruttano l'inevitabilità di certe dinamiche economiche, ma tremendamente false nel momento in cui vogliono far passare la soddisfazione per dei prodotti come un surrogato di felicità. E forse anche la fine di certe “retoriche teatrali”, la sensazione che taluni “arroccamenti sul contemporaneo” abbiano perso la loro ragion d'essere. Sarebbe interessante da questo punto di vista mettere a confronto Il giardino dei ciliegi della compagnia bolognese con un'altra importante riscrittura checoviana andata in scena negli ultimi tempi, il Platonov del duo irlandese Dead Centre (Chekhov’s First Play, visto a VIE 2017). Anche lì assistiamo a un party venefico e “maleodorante di crollo”, dove la decadenza della piccola nobiltà russa si trasforma per metonimia in decadenza scenica, in distruzione prima metaforica di linguaggi ed elementi teatrali fino a una concretissima “wrecking ball” che si abbatte sulla scenografia. Qualcosa di dirompente e a tratti genialoide, che riesce a costruire un potentissimo thriller teatrale in assenza di suspence drammaturgica, affidandosi cioè solo a una serie di spostamenti formali che vengono portati alle loro estreme conseguenze in modo sempre più incalzante. Eppure, questo riassorbimento estetico totale e onnicomprensivo, non è in fondo un disperato tentativo di rimandare la fine? Non è precisamente una tipica strategia delle classi dominanti, quella di capitalizzare la loro stessa crisi e farne uno status symbol? Ciò vale anche e soprattutto se trasliamo il discorso, come d'altronde fanno i Dead Center, ai 25-30enni di oggi. Alberto Ventura, autore del saggio che citavamo all'inizio, afferma tra il serio e il faceto in un'intervista che è proprio la consapevolezza di far parte della classe disagiata a essere diventato l'ultimo, estremo, “bene posizionale”. Una consapevolezza che, tornando a Platonov, si ammanta di di tutto un rivestimento stilistico adeguato, dall'insistita colonna sonora dei Moderat alla “glacialità scenografica” tipica di tanto teatro nord-europeo, che appunto “mette in scena” crisi e decadenza senza mai essere veramente quella crisi e quella decadenza. Le rappresenta e le distanzia, posticipando la loro attuazione.
Kepler-452 invece non propone un’idea forte di teatro, ma ha tantissime intuizioni e scintille che sembrano fatte apposta per il palco, che reclamano quasi naturalmente la scena per accendersi. Nessuna pretesa di decostruzione o interpretazione del testo, nessuna velleità linguistica. Eppure, in due ore scarse di spettacolo, passiamo con sorprendente scorrevolezza fra stralci di recitazione naturalistica, episodi di teatro con i non-professionisti, scampoli di reality-trend, accenni di partecipazione del pubblico, sconfinamenti nel pop, affondi politici di taglio cronachistico e probabilmente molti altri codici che però non si identificano neppure, tanto forte è l’omogeneità finale del tutto. È come una corsa-rincorsa per cerchi concentrici di dubbi e questioni, che a ogni girone imbocca senza pensarci troppo la via che “fiuta” come migliore e indossa la “veste drammaturgica” che di volta in volta sente più appropriata. E nel farlo mette al centro una domanda che, nonostante la sua apparente banalità, in pochi oggi hanno veramente il coraggio di porsi: perché non siamo felici? La mette al centro con un’urgenza e un impeto che la rendono assolutamente non-rimandabile (questo, infine, il senso della fine!), ben sapendo che quella della “felicità che consiste nella consapevolezza della propria infelicità”, come in fondo ce la presentano un po' i Dead Centre, è una truffa colossale. Un modo di intendere la scena che da un’urgenza intima (qualcosa anzi quasi di imbarazzante da chiedersi) cerca di tradursi in questione collettiva. E che, proprio in virtù di questo movimento, ci mostra la possibilità non tanto di fare un “teatro politico”, quanto – molto meglio – di fare teatro politicamente.    


Kepler-452, Il giardino dei ciliegi

Un teatro che dunque rimescola le carte, ci conduce ai bordi dell'immateriale provando a dare nomi a delle cose che noi non vediamo ma che sono lì, in tutto e per tutto. Si parla di animali, si elencano specie di uccelli che oramai conoscono in pochi, giusto chi vive ancora legato a un'idea di “cosmo”, antica e diuturna. A un certo punto Nicola Borghesi è al centro del palco e ci richiede uno sforzo percettivo. Sta descrivendo delle immagini, dei piccoli quadretti che vanno a comporre un più grande affresco, una galleria di personaggi di un dipinto, grotteschi e stralunati. Lodo e Paola Aiello gli zompano da un lato all'altro, provando a star dietro al suo flusso di parole mimano questi personaggi, ne esaltano i contorni e le personalità con “gestualità efferata”, non mettono in scena ma ricalcano col corpo e coi nervi, con esercizi di “fantasia muscolare”. Di colpo, la trasparenza si trasforma in consistenza. Siamo davanti al murales di Blu che fino a non troppo tempo fa campeggiava su una facciata del centro sociale bolognese XM24 (tutt'oggi sotto sfratto), un murales che l'artista ha deciso di cancellare ricoprendolo interamente di grigio per evitarne l'appropriazione indebita da parte di una mostra comunale “sull'arte allo stato urbano”. Di colpo, siamo davanti alla paradossalità della sua assenza nel tessuto cittadino, alla concretezza di un gesto radicale che chiama in causa l'essenza stessa dell'arte e il suo carattere effimero di “illusione”.


Blu mentre cancella uno dei suoi murales di Bologna (foto Michele Lapini/Eikon studio)

Ma non erano le scritte quelle che dovevano rimanere, e le parole invece destinate a essere dimenticate col tempo? Non era il teatro proprio quell'altrove transitorio e ineffabile, che si crea nel qui ed ora e che lascia traccia solo nella memoria dei testimoni? Viene in mente Adorno, per il quale un'opera ben fatta tende sempre a trapassare nel campo sensoriale opposto. Per cui una composizione sonora, che si dispiega nel tempo, è tanto più significativa quanto più la possiamo visualizzare come un dipinto, cogliendola per un solo istante in tutta la sua interezza. O al contrario un quadro, che sulla tela permane, se ce lo possiamo narrare in tutte le sue componenti come fosse una storia. C'è allora qualcosa di veramente primordiale e al tempo stesso “avanguardistico” in questa strana alleanza fra murales di un centro sociale e teatro, in questo trapasso da gigantografia visiva urbana a racconto scenico. Si tratta davvero – e val la pena di prendere a prestito proprio le parole degli Stato Sociale – di “una vendetta calda su un tempo freddo”: d'improvviso, il grigio che riveste il muro della Bolognina ci sembra un po' meno grigio. Anzi, un grigio necessario, quindi più forte e denso. Qualcosa che, pur nascendo da un moto individuale, forse anarco-individualista, ci riguarda (ci ri-guarda) finalmente tutti, nessuno escluso, e reclama responsabilità che non hanno che da essere collettive, in un connubio inscindibile fra vuoto estetico, memoria storica e azione politica. Qualcosa di imprevisto e imprevedibile, eppure inarrestabile. Come certe giornate di primavera, come certo teatro.

[articolo pubblicato il 26 aprile 2018]


di Francesco Brusa
         

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