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Overground, la scena a luce naturale hello
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Due figure stanno in piedi all'ingresso di una grotta, le gambe avvinghiate tra loro e le braccia tese a mantenere l'equilibrio. L'oscurità del piccolo antro assorbe il nero delle loro strette tute, una seconda pelle dalla quale emergono solo gli occhi. Sono Paola Villani e Daniel Blanca Gubbay della compagnia Pathosformel che reinterpretano un'azione del loro spettacolo Volta.
Questa la prima delle immagini raccolte in Overground (Boiler Edizioni, 2011), libro che testimonia un percorso di fotografia di scena fuori dalla scena: a partire dal 2009, Luca del Pia ha chiesto ad alcuni performer e danzatori di agire fuori dal palcoscenico, ricollocando gesti estratti dai loro spettacoli in cornici esterne, abitando i diversi luoghi con un'intensità e un'immaginazione peculiari.
Vediamo Sonia Brunelli (Barokthegreat) affondare i piedi tra le zolle di un orto o far emergere verticali e limpide le sue gambe accanto a una piccola coltivazione di zucche; la sequenza di Eleonora Sedioli (Masque teatro) si compone di numerosi incastri del proprio corpo tra le rocce, dove la sua figura sosta nelle fessure di una parete o disegna traiettorie e passi sulle scanalature orizzontali che la natura propone; gli scatti con Cristina Rizzo sono inaugurati da un ritratto della danzatrice a figura intera che fissa la macchina fotografica da un guard-raill, mentre le fotografie seguenti ci conducono su una vasta terra rossa, dove la piccola figura della Rizzo scivola sulle curve spontanee del paesaggio, facendosi elemento straniante, rivendicando la propria presenza con un semplice e preciso “stare” in quella grande campitura.
Lontano da un orizzonte documentativo o dal racconto per immagini di un'opera performativa, Luca Del Pia intraprende nell'ambito della fotografia teatrale una vera e propria ricerca, indagando la materia cristallina della presenza scenica e del gesto performativo scegliendo però di metterli alla prova.

Introducono la lettura delle immagini di Luca Del Pia quattro saggi di altrettante studiose delle arti sceniche che interrogano il processo ideativo dell'intero progetto: Lucia Amara ragiona sulla «dipartita dalla visione e dalla scena» che le immagini di Overground stabiliscono, conseguenza del riposizionamento di un oggetto (la performance) in un luogo estraneo che lo muta nel suo significato e nella sua percezione; la «scena-paesaggio» è invece il nodo che affronta Tihana Maravic riflettendo sull'atto creativo che fonda un paesaggio, ovvero la sua inquadratura e lacerazione da un'orizzonte infinito e reale; ancora all'interno della visione scava Piersandra Di Matteo, proponendo una riflessione sull' «attrazione desiderante» che un'opera è in grado di esercitare per «afferrare un soggetto» e avvicinarlo a sé. Se i primi tre saggi si concentrano dunque sul processo visivo, partendo dallo spaesamento innestato da Luca Del Pia con i suoi scatti, Adele Cacciagrano con l'ultimo scritto affronta più direttamente la questione fotografica mettendola in relazione con uno dei fuochi della ricerca di Overground, ovvero il corpo del performer: attraversando la figura di Lewis Carrol, riflette sull'ostensione del «corpo osceno» e sulla relazione che intrattiene con lo sguardo dello spettatore, in un gioco di avvicinamento e repulsione o di riuscita cattura.

Tra campi, sentieri, rocce, prati circondati da antiche muraglie ma anche piscine e rive del mare o bordi di strade asfaltate, Luca Del Pia costruisce fotografie che danno prevalenza al nudo gesto scenico, alla qualità di presenza e infine ai corpi dei performer: colorati ogni volta da una nuova luce naturale, tela di pelle su cui si appoggiano riflessi e ombre, gli artisti consegnano al fotografo-spettatore una seconda performance finalizzata alla realizzazione di un'immagine.
Ma in alcune serie è il linguaggio surreale a prevalere sulla forza scenica: grazie allo straniamento dell'azione e a una composizione che si getta nella ricerca di uno sguardo più allargato e meno addossato alle figure dei performer, ecco che tramite corpi vestiti accanto a corpi seminudi, volti che mirano nello stesso quadro orizzonti diversi, piani vicini e lontani che dialogano tra loro con ironia, gli scatti di MK in riva al mare rivelano il divertimento della creazione in posa e la serietà di un'idea finale complessiva; le scatole di cartone di Helen Cerina abitate o affiancate dalla sua figura magra sembrano appunti di una storia fantastica, di cui non si conoscono gli sviluppi ma solo piccoli passaggi; i corpi nudi degli Orthographe sotto la superficie dell'acqua di una piscina tengono insieme più desideri, di pace e silenzio, di contatto ed evasione, di amore e lotta.
Nell'ultima immagine di Overground ritroviamo i Pathosformel. In tutti i loro scatti non hanno mai abbandonato quella grotta, ed è ancora lì che sostano. Ma questa volta sono fuori, immersi nella luce, vestiti di un intimo color carne rubato a La timidezza delle ossa. Adesso è il fotografo a stare nell'antro e rivolgersi all'esterno, dove due figure in controluce e senza volto sembrano indicare, a noi e a lui, un'altra volta, un possibile fuori.


di Serena Terranova


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