Quella sulle essenze è una domanda crepuscolare. Per quanto ci possa sembrare originaria essa arriva sempre, irrimediabilmente, dopo: non precede la conoscenza delle cose, ma abita – quasi sonnecchiando – la loro ombra. Come diceva Deleuze in Che cos’è la filosofia?, «è una domanda che ci si può porre soltanto tardi, quando viene la vecchiaia, e l’ora di parlare concretamente. Occorre aver raggiunto quel punto di non-stile che consente di dire: ma cosa ho fatto per tutta la vita?»
È appunto in questa atmosfera umbratile e malinconica, sempre però intrisa di una tagliente autoironia, che pare muoversi L’arte del teatro di Pascal Rambert. Anzi, in cui si muove il testo dello spettacolo, una “filastrocca meditativa” che balza avanti e indietro nel tempo, corre qua e là sulla scena spoglia fino a irrorarla di parole. Il corpo dell’attore Paolo Musio, nonché quello di un levriero che lo accompagna in scena, resta invece principalmente fermo, fisso su una sedia a rivolgere ora a noi ora al cane uno sguardo colmo di dubbi, nonostante l’assertività del discorso generale. È appunto un attore – forse al tramonto della carriera – che si racconta, in controluce. Se il teatro è qualcosa che accade qui e ora, un incontro fra il pubblico e ciò che “passa” in scena, la biografia di chi il teatro lo incarna e lo sostiene non potrà che essere una traccia delle sue relazioni. Con i registi, veri e propri «cazzari» sempre pronti a perdersi in inutili chiacchiere, astratte e noiose; con le donne, vecchie e giovani: le prime perennemente in affanno a esorcizzare la propria fine, che allontanano con la passione dei sensi lo spettro dell’età; le seconde piene di energia e fascino ma anche di civetteria, non cessano di ripetere che vogliono brillare in scena perché «il teatro ce l’hanno nel sangue»; con i «mestieranti» che, fiduciosi nel Testo, abdicano al loro compito più grande: bruciare sul palco di un fuoco vivo e imprevedibile.
Infine, anche se ovviamente rimane sottinteso, la relazione con se stesso. In questo senso il levriero costituisce un doppio del protagonista più fedele e più spietato di uno specchio, poiché custode di quella animalità di cui gli attori si fanno interpreti senza però poterla mai esprimere a voce. Il suo essere ininterrogabile e impassibile di fronte al pudore umano (il pudore di chi si mette a nudo davanti alla platea) è dunque segno di una fondamentale opacità del teatro che, al pari di tutti i misteri, si rivela prossimo alla morte: come recita l’adagio, quando ci siamo noi non c’è lui e quando c’è lui non ci siamo noi.
Ecco che, proseguendo sulle suggestioni filosofiche, la conoscenza non può che darsi in quanto reminiscenza. Non ricordo, in cui L’arte del teatro potrebbe sembrare immerso a un primo sguardo, ma composizione a ritroso e per assurdo di una “poetica”, precettistica negativa di chi il teatro sente di saperlo fare ma non riesce a spiegarselo. Di tutto questo ci parlano in fondo Paolo Musio e, da dietro le sue parole, Pascal Rambert.
Eppure la domanda di partenza permane: davvero non possiamo realmente sapere il teatro? Dobbiamo rassegnarci al fatto che l’arte della scena non è che un “furto” di qualcosa di immateriale? Lo spettacolo pare lasciare un diverso spiraglio: mentre l’attore recita il suo monologo, proprio nei punti in cui il discorso sembra inerpicarsi verso un tono più alto e vagamente solenne, notiamo una porta spalancata alle spalle del palco, che dà su un lungo corridoio. Ogni tanto delle persone lo attraversano, chi con uno zaino chi portando a mano una bicicletta, tutti sbattendo degli usci dietro a sé. Frammenti gratuiti di quotidianità che irrompono nella scena brevemente e da lontano ma che hanno spesso l’effetto di un “crollo del sipario”.
Si tratta di un espediente per iniettare dosi di ironia nel testo e alleggerirlo, certo. Ma anche scampoli di una possibile “dimensione terza”, dove il teatro convive con il suo contrario e riesce pertanto a “ridirsi” in prima persona, senza cioè doversi raddoppiare nel corpo di un attore che ce lo racconta (il protagonista Musio) o trovare un portavoce, seppur muto, della propria alterità (il levriero). Sembra di essere nell’appartamento di Georges Perec in cui appunto gli oggetti non hanno bisogno di trasfigurarsi per inventare una loro drammaturgia, diventano letteratura senza passare dalla Storia. Verrebbe da esplorare maggiormente questo appartamento, verrebbe da inabissarsi in questo “sfondo senza fondo” cercando però di mantenerlo in prospettiva. Ma lo spettacolo ce ne restituisce solo piccole schegge, sempre al servizio del resto. Tanto da far sorgere il dubbio che L’arte del teatro sia oltre che autoreferenziale – com’è inevitabile e giusto – forse anche un po’ auto-compiaciuto.
Rimane allora da godere nel mezzo di una presenza scenica leggera ma comunque centrale. Rimane una nostalgica distensione della finzione, giocosa retrospettiva che si fa a tratti “capriccio” a tratti emblema: il teatro e noi – noi e il teatro, cosa fra le cose o primigenia rifrazione della loro essenza?